Degno testimone e protagonista del tramonto della
repubblica, Marco Tullio Cicerone, nonostante la sua (relativa) chiusura alle
esigenze degli strati sociali più disagiati, non può essere definito
semplicemente un reazionario, ma più esattamente un conservatore moderato: il
progetto politico, che cercherà di difendere nel corso della sua carriera, sarà
infatti quello dell'egemonia di un blocco sociale costituito sostanzialmente
dalla classe possidente dei senatori e dei cavalieri, allo scopo di porre un
argine alle tendenze sovversive che serpeggiavano nella società del tempo: la
necessità di consolidare e orientare questo blocco sociale significava di per
sé un superamento degli obiettivi tradizionali della politica romana, per lo
più prigioniera di una lotta di fazioni e di cricche clientelari. Quindi,
l'intero operato di Cicerone si può interpretare come la ricerca di una
difficile situazione di equilibrio fra istanze di ammodernamento e necessità di
conservazione delle leggi tradizionali. Fedele alla tradizione, come visto,
Cicerone non può immaginare un mondo dove l'impegno nella gestione della cosa
pubblica non sia il valore supremo.
Ed è forse qui che si situa il centro e il
fine ultimo di tutti i suoi pensieri. La misura della sua personalità di uomo
di lettere, pensatore, scrittore, va cercata nel nuovo tipo di humanitas che
egli a buon diritto incarna. Vissuto nel pieno dell’età più travagliata della
storia interna di Roma, svolse un’attività di primaria importanza, sempre
mirando al raggiungimento di un equilibrio politico-culturale che saggiamente
contemperasse le esigenze dei tempi nuovi con la conservazione del patrimonio
della tradizione. Il suo ideale fu il circolo scipionico, di cui in gioventù
conobbe e frequentò personalmente alcuni tra i più giovani rappresentanti. Quel
circolo, che ai tempi di Catone appariva come audacemente innovativo e
rivoluzionario per tendenze e costumi ellenistici, ai tempi di Cicerone (dunque
più o meno un secolo dopo) appariva già come qualcosa di lontano, di superato.
Ciò dunque può far ben comprendere di quale tipo di mentalità fosse Cicerone:
fondamentalmente ancorata alle tradizioni di una società aristocratica e
conservatrice. Durante la conquista per il sommo potere Cicerone è il profeta
disarmato che si getta nella mischia e richiama ai concittadini a un ideale
civile di concordia, di rispetto della legge, di riconoscimento della
superiorità morale: egli colloca al primo posto i valori dello spirito. Questo
grande avvocato fu davvero un uomo diplomatico?Certamente non si può dire che fu abile nei giochi di potere: era un uomo schietto, denunciava in senato qualunque fatto mettesse, a suo avviso, in pericolo la repubblica. Non fu abile nemmeno nel prevedere il corso degli eventi che, in quei brevi anni, precipitarono, né a scegliere alleati e nemici. Proprio per questa sua schiettezza e in genuinità si mise talvolta in soluzioni estreme, come l’esilio, nel 58, e infine la morte a causa delle liste di proscrizione del secondo triumvirato. Non è da dimenticare che diede la sua benedizione a Ottaviano, che seppe guadagnarsi la sua benevolenza, pur essendo nipote del Cesare che aveva tanto odiato.Cosa sono “Le Filippiche”? Furono così chiamate da Cicerone stesso le 14 orazioni che, dopo la morte di Cesare, nel giro di 8 mesi, egli pronunciò contro Marco Antonio, per lo più in senato, talvolta davanti al popolo, ai Rostri. L’uccisione di Cesare era stato un episodio sanguinoso, niente di più: nulla era cambiato nella vita pubblica di Roma, nulla nella vita privata; solo che l’eredità del dittatore era stata arbitrariamente assunta da un individuo, Marco Antonio, che, pure fornito di non trascurabili doti, non aveva certo l’intelligenza politica e il cuore di colui che sarebbe rimasto nei secoli come simbolo di grandezza e di potenza.
I
congiurati, che erano stati forti davanti a Cesare vivo, si smarrirono davanti
al ricordo, allo spirito di lui, e si dispersero; mentre in Italia
spadroneggiavano uomini come Antonio, e il diciannovenne Ottaviano faceva i
primi passi per riguadagnare il terreno perduto per la sua giovane età e per la
lontananza. Cicerone, che aveva sopportato a malincuore lo strapotere di
Cesare, si sentì ribollire di sdegno davanti ai soprusi, alle prepotenze, alla
crudeltà di Antonio e parlò con la foga di chi si sente mortalmente ferito nel
più intimo dei sentimenti, con l’intelligenza di chi ha dedicato tutta una vita
ad arricchire il suo spirito; e così uscirono dalle sue labbra le “Filippiche”,
alcune delle quali meravigliose come la II e la XIV: ma tutte belle smaglianti,
piene di passione, di vita e di sincerità traboccante, tanto che non a torto
presero nome da quelle orazioni che Demostene pronunciò contro Filippo di
Macedonia e che furono l’estremo, nobile tentativo di un grande cuore per
scongiurare la schiavitù della Grecia, condannata ormai a seguire il carro del
vincitore Macedone. Nelle “Filippiche” predomina l’uomo, il civis, non il
letterato, e sotto lo sdegno si intravede il pianto, sotto l’esecrazione
l’amore appassionato di un vecchio che raccoglie tutte le sue forze per farle
servire ancora una volta allo spirito: purchè i Romani sappiano ascoltare il
suo ammonimento, purchè sappiano rifiutare la “ patientia servilis”, abbattendo
il dominatus di un Antonio assolutamente imparagonabile con Cesare. L’”essenzialità” è la caratteristica predominante delle quattordici Filippiche
e costituisce perciò la più alta conquista artistica dell’eloquenza
ciceroniana, dove i tre fini ultimi dell’eloquenza, Docere debitum est, delectare honorarium, permovere necessarium” (traduco : insegnare e’ un dovere,dilettare e’ un titolo
d’onore,scuotere e’ necessario)sono
ampiamente raggiunti.
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