
L’abbucatu è ccomu lu préviti, ti tutti
tiémpi, méti
[L’avvocato è come il prete / in tutti i tempi miete]
(Taranto)
[L’avvocato è come il prete / in tutti i tempi miete]
(Taranto)
di Alberto Sobrero
Tutto il Salento è ricco di proverbi che disegnano in controluce la mappa del potere in una società
pre-moderna, tratteggiando il profilo dei potenti visti dal basso, dagli strati
più poveri e indifesi della società. Possiamo trovare il papa e il re, lontani e
astratti detentori di potere, e lu patrunu, concreto e vicino padrone
con cui il contadino aveva a che fare nella vita di tutti i giorni.
Il proverbio che vado a commentare, individua, invece, due personificazioni del potere, anch’esse concrete e reali, due pilastri
della vita sociale: il prete e l’avvocato.
Queste figure, nella cultura
popolare, sono circondate da un’aura di grande prestigio ma anche di
inquietante mistero: l’una è figura di mediazione fra il mondo reale e l’aldilà
– il mondo degli angeli e dei demoni, delle preghiere rituali e dei castighi
terribili –, l’altra è figura di collegamento fra il mondo dei fatti nudi e
crudi e il mondo misterioso delle parole ‘di scuola’: parole che possono
cambiare la vita, portare il bene o il male anche in forma estrema. Uno è
l’espressione della legge divina, l’altro della legge terrena, e per questo
sono rispettati e temuti, amati e odiati.
A ben vedere, la figura del prete, in
molte culture popolari, si avvicina a quella dello sciamano, per la
misteriosità delle sue formule magiche, la complessa ritualità dei suoi simboli
esoterici, dei gesti ieratici, delle vesti cerimoniali così lontani dai simboli
dalla gestualità e dal vestire della vita ordinaria, per il riferimento
costante a divinità misteriose (se non misteriche) e potentissime. Anche la
figura dell’avvocato è circondata da un’aura misterica: anche lui usa parole
‘magiche’, incomprensibili, si esprime per formule e rituali, esercita con
tocco e toga, fa riferimento costante a una terribile tavola delle leggi… Nella
più positiva delle raffigurazioni ha la fisionomia del manzoniano
Azzeccagarbugli: giocoliere delle parole (le parole della furbizia e
dell’imbroglio, il latinorum che confonde), sempre schierato dalla parte
dei potenti.
Da questo sospetto latinorum e da
questa costante alleanza coi potenti nasce la diffidenza di fondo per queste
due figure, che della comunità conoscono tutti i segreti ma non ne sono mai
percepiti come membri ‘alla pari’.
Ed è così che, in molte rappresentazioni
popolari, prete e avvocato sono figure assolutamente negative, come nel nostro
proverbio. Agli occhi smagati del contadino l’esperienza quotidiana la vince
sul fascino dei cerimoniali liturgici e avvocateschi: vede che i suoi miseri
guadagni sono soggetti ai capricci delle stagioni e delle annate, sono
occasionali e saltuari, a volte ridotti a niente, mentre il prete con le
elemosine e le donazioni, l’avvocato con le sue parcelle salate si assicurano
introiti robusti per tutto l’anno. Il contadino miete una volta all’anno, il
prete e l’avvocato tutto l’anno.
Altro che figure ‘superiori’! L’avvocato
può mandarti addirittura in rovina: un altro proverbio recita: “A cci vè ddò
l’abbucatu / pérdi l’ùrtumu tucatu” (Chi va dall’avvocato / perde anche
l’ultimo ducato). Per il prete va anche peggio, perché la cultura contadina,
quando si tratta di figure ostili, non conosce leziosità né gentilezze d’animo:
un proverbio calabrese – conosciuto in varianti diverse anche altrove –
sentenzia addirittura: “Priéviti, muénici e ppàssili / càzzili lu capu e
llàssili”, ovvero “Preti, monaci e passeri / schiacciagli la testa e
lasciali”.
Una volta lo chiamavano odio di classe.
Oggi si parla di privilegi di casta. Ma nella compagine sociale, in fondo, non
sembra che sia cambiato molto.
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