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martedì 14 marzo 2017

“L’Orco in Canonica”: un viaggio dentro se stessi

Lettura del romanzo verità scritto dal prof Paolo Cendon
di Maria Beatrice Maranò

“Dove si è decretato che è vergognoso concedersi agli amanti, ciò viene stabilito per la bassezza dei legislatori, per l’arroganza dei dominatori, per la viltà dei sudditi" parole di Platone, con le quali, nel Simposio criticava la decisione di alcune zone dell’antica Ionia di bandire la pederastia. Ebbene si, purtroppo, al pari di furto ed omicidio, la pedofilia,  uno dei reati più abominevoli,  attraversa la storia di tutta l’umanità.
Possiamo trovare radici di questo fenomeno, e più in generale della violenza sui bambini, anche nella mitologia greca: la storia di Pelope, il mito di Laio e Crisippo e quello di Zeus e Ganimede ne sono solo gli esempi più noti. Sul piano più propriamente storico, in genere, si fissa con Sparta l’ufficializzazione della relazione pedofila che, secondo le testimonianze di Plutarco, interessava gli adulti e i dodicenniPerché questo riferimento storico così inquietante, prendendo carta penna e calamaio, una domenica pomeriggio di marzo? Ho terminato di leggere l'ultima fatica letteraria di Paolo Cendon "L'Orco in Canonica": un tema difficile ma trattato con profonda delicatezza, senza mai fermarsi, troppo, dietro il buco della serratura nei particolari morbosi, ma calandosi "ad inferos" nei meandri dell'animo di Anna che da bambina diventa donna, portandosi dietro durante tutto il percorso della adolescenza e di parte della giovinezza,  i ricordi o meglio gli incubi rimossi e riemersi sotto forma di nevrosi, ansie, patologie psicofisiche, di abusi subiti in canonica ad opera di un sacerdote cosiddetto irreprensibile. Quello che colpisce in tutto il romanzo è il ritmo della narrazione ….lentissimo nei primi capitoli quando, la piccola protagonista,  nell’indulgere del racconto in un susseguirsi di astuti e persuasivi adescamenti favoriti dall’ orgoglio di essere stata scelta dal sacerdote per svolgere mansioni da privilegiata all’interno della parrocchia, affronta un costante combattimento interiore tra due Anna: la maggiore quella della coscienza profonda, “la Sapientina” e quella invece che “viveva le cose reali con Don Fulvio, Annetina.”; “ Attenta mi raccomando”
cominciava la prima; “ Vediamo che intenzioni ha “ era cauta la seconda …Le stesse due Anna che riemergeranno molti anni dopo quando, dopo aver rimosso il suo passato nei ricordi, la protagonista, incomincerà una psicoterapia ( a causa di infinite e drammatiche conseguenze psicofisiche che quelle violenze le avevano lasciato, senza che potesse in qualche modo riuscire a risalire alla causa che aveva occultato nella sua mente), che rappresenterà una discesa "ad inferos" per risalire "ab inferiis" incontaminata e libera dal profondo peso dei suoi lutti passati. Un percorso simile a quello di Umberto Saba e trasposto nelle sue poesie, guarda caso proprio di Trieste, citta' adottiva dell’autore Paolo Cendon. E con quelle due Anna il terapeuta del romanzo si era imbattuto , e si era reso conto che erano come “due comarette inclini a chiacchierare “…una l’Annettina che “ viveva le cose del mondo…belle o brutte che fossero” ed “ il grillo parlante …la Sapientina che incitava la prima a non fidarsi”. La narrazione cambia poi ritmo nella fase della adolescenza, successiva agli abusi e diventa più incalzante e ancora più veloce nella fase della terapia ed in quella saliente dei processi, per ritornare poi lenta nel dolcissimo epilogo finale.

Il Virgilio che accompagna Anna in questo viaggio dentro se stessa ripercorrendo la commedia dantesca, nella stessa sequenza prima l’inferno, poi il purgatorio ed infine il paradiso, è il narratore del romanzo, un professore di Istituzioni di diritto privato di Pavia ( l’autore è stato docente a Pavia), a cui Anna chiede la tesi di laurea su un particolare argomento: “Responsabilità da fatto illecito con particolare riferimento al danno non patrimoniale da molestie sessuali”; con lui e attraverso di lui , con una modalità narrativa di inizio che è antichissima ( la ritroviamo nell’Eneide), e cioè in “ medias res” , Anna ripercorre il suo dramma. Un viaggio dentro di sè  che, a prescindere dalla causa specifica ( abusi sessuali), può percorrere ognuno di noi, per comprendere piccole o grandi nevrosi, difficoltà relazionali e angosce esistenziali che spesso concretizzano un profondo “male di vivere”, che accompagna la nostra vita. Un percorso che un po’ quello del γνῶθι σεαυτόν, (“conosci te stesso”) socratico il cui filo di Arianna è la stessa volontà di Anna…Una bambina che sembra nata già donna …: “ho fatto sempre in modo di cavarmela da sola” dice nell’interrogatorio durante il processo: “..i segreti con Don Fulvio meglio non uscissero dalla canonica. Fuori doveva restare l’Anna di sempre” Ma la domanda inquietante è cosa fosse scattato nella testa della piccola Anna, anzi di “Annettina” per non ascoltare l’altra Anna “la Sapientina” … : “mi ero sentita capita; non sapevo cosa cercavo, pensavo lì di trovarlo”, riferisce Anna durante l’interrogatorio al processo, precisa il narratore: “Si era spalancata una porta quello che vedeva era invitante”; pensava Anna: “Uno in grado di prendersi cura di una bambina irrequieta”; continua il narratore: “Aveva letto tremila libri più di lei”, prosegue Anna : ”La stima verso il predicatore non è finita mai, in un certo senso come se i due lati del cappellano, quello spirituale e quello animalesco, si fossero intrecciati tra loro. Non più Don Fulvio che ampliava i miei orizzonti, da una parte, e quello che mi insidiava, dall’altra. Un tutto unico ormai”. La famiglia di Anna quasi in ombra durante tutto il romanzo evidenzia la presenza di due splendide persone. Così dice ad Anna il professore di Pavia che raccoglie le sue confessione, narratore e deus ex machina di tutto il romanzo: “Sua madre per prima le è stata vicina in ogni frangente, lo è anche oggi. Può voltarsi indietro, sempre la ritrova: chi c’è lì all’uscita dell’asilo, a quattro anni? Chi le aveva cucito quel vestitino rosso a sette anni, per la festa di compleanno ? Ed i cerotti, le svendite, il talco le sorprese?...Suo padre lo stesso…nove anni quattordici, quando mai non era la? Alberi di ciliegie, visite ai poveri, estati all’aria aperta, fotografie da sviluppare…”Splendide persone ma forse poco un unicum, forse poco famiglia e ciò si intravede in quella strana separazione a causa della condotta dello zio. Un’amica ottima terapeuta guarda caso dal nome “ Paola“ come Cendon  ebbe a dirmi, una volta, per un bambino non è tanto importante l’amore che riceve dalle singole persone quanto quello che respira dal contesto familiare: è questo ciò che è famiglia. Forse Anna pur avendo avuto due splendidi genitori non aveva una vera famiglia intorno a sé: è questo lo ha resa fragile desiderosa di essere ascoltata.  E Dio in tutto questo? “Non mi ha aiutata, poteva farlo, mi ha abbandonata al mio destino”, dice al professore: “Da anni continuo a dirmelo. Gesù aveva trentatré anni quando è stato lasciato solo dal Padre, per breve tempo poi; io poco più di otto anni, ero indifesa, sono rimasta così fino alla terza media …Se una reazione manca vuol dire che non ci sei là in alto, comunque che non te ne importa; il che significa che non sei un vero Dio”   
Di grande spessore è Luca, il fidanzato della piccola protagonista, instancabile nella pazienza e nella dedizione dimostrata che le regalerà la sorpresa finale del romanzo…la sorpresa della redenzione…forse Anna non lo ama ( imparare ad amare è una luce che nel romanzo si intravede, ma solo in lontananza …tante urgenze necessarie alla vita prima di poter imparare ad amare dal profondo dell’anima). Combattive le due donne giuriste: il P.M. e l’Avvocato, sulla stessa lunghezza d’onda. Squallide le figure di secondo piano che con l’omertà coprono la condotta del sacerdote. Un uomo, Don Fulvio, che è rappresentato con una metafora fortemente evocativa:  come un gabbiano ( attenzione non un’aquila, palesemente rapace ma un candido gabbiano che, innocuo, rapisce un passero): “Mentre stava lì al sole, su una panchina, ecco la scena. Un grosso volatile era planato dall’alto, un gabbiano le sembrava scendendo dietro un  gruppo di passeri che beccavano assorti fra le pietre: piano piano si era avvicinato. Con uno scatto aveva allungato il collo, afferrando uno degli uccellini nel becco stringendolo in una morsa senza uscita; pago del bottino si era volto ad aprire le ali, sbattendole lentamente nel prendere l’aria. Anna a distanza di pochi metri, c’era stato appena il tempo di scorgere il capo del passero, vivo ancora, che ricambiava il suo sguardo, da dentro la tenaglia in cui era imprigionato, mentre il volo  del predatore già saliva, era come se dicesse: “cos’è andata, mi porterà in alto adesso, sarò presto inghiottito, qui la mia vita finisce”;  Don Fulvio, tuttavia, è nello stesso tempo un sacerdote capace di  leggere pagine come l’Epitaffio di George Gray
dall’Antologia di SpoonRiver (Edgar Lee Masters) “Molte volte ho studiato la lapide che mi hanno scolpito: una barca con vele ammainate, in un porto. In realtà non è questa la mia destinazione, ma la mia vita. Poiché l'amore mi si offrì ed io mi ritrassi dal suo inganno; il dolore bussò alla mia porta
ed io ebbi paura;
l'ambizione mi chiamò,
ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia,
ma una vita senza senso è tortura
dell'inquietudine e del vano desidero;
è una barca che anela al mare eppure lo teme”. Don Fulvio in fondo è una vittima esso stesso come tutti coloro che si macchiano di colpe così indicibili, sono persone malate e la loro malattia è come nell’Edipo re “ρίζες αιματηρή” : una radice insanguinata …le colpe dei padri che ricadono sui figli.
Ho conosciuto il prof Cendon ai tempi dei miei studi universitari in occasione di una trasferta da Siena a Firenze e nel corso della professione ha spesso accompagnato i miei approfondimenti in materia di danno. La sua borsa di "Miss Flite", parafrasando un noto romanzo di Bruno Cavallone, scritto ricordando la simpatica signora di Dickens in "Bleak House", é ricca di carte scritte con la penna del giurista che nasconde il cuore del letterato e che, scavando nei meandri del processo, chiacchiera con i mostri sacri della letteratura. Lo ricordo in uno scritto di un po' di anni fa pubblicato in una nota rivista giuridica in cui, per evidenziare l'incapacità dei "baremes" sul danno esistenziale di risarcire, con pienezza, il danno ad un seno, si addentrò nel racconto di una novella di Guy de Maupassant, "Idillio" che narrava la storia di un soldato salito sulla carrozza di un treno che, affamato, incontra una balia e si sfama con avido desiderio collegato al bisogno ancestrale di fame, ma forse anche di affetto, al seno di quella donna. E Maupassant legge pure Anna, la protagonista del romanzo,  proprio nel suo viaggio di ritorno finale. “L'Orco in Canonica" a prescindere dal tema é un viaggio per riflettere su quanto la nostra storia e la nostra famiglia detti le regole del nostro futuro ...e per quanto la vita ci faccia cadere ...spesso ci aspetta ( parafrasando una canzone di moda in questi giorni) per rialzarci e proseguire più forti e coraggiosi di prima. Insieme ad Anna, su suggerimento dal  narratore, per tutti gli avvenimenti che ci procurano dolore impariamo a perdonare ma soprattutto a perdonare noi stessi, a fare la pace con noi stessi e a chiederci: “…se accanto ai lati brutti, di una certa presenza, ce ne sono anche di belli, numerosi abbastanza da bilanciare i primi”…cercando di  “distinguere tra compensazione di tipo interno e compensazione di tipo esterna…la prima è quando uno dice: hai qualche qualità, accanto ai difetti quindi non ti butto giù dalla torre. La seconda , invece: virtù ne hai poche, nessuna anzi, per ragioni mie però che non c’entrano con te, faccio tornare i conti lo stesso: e non ti butto”. Impariamo a guardare avanti, come ci insegna Cendon, accorgendoci dei gorghi che si formano lungo il fiume della nostra vita …”al centro della corrente ogni cosa è trascinata verso il fondo: l’acqua più torbida fra i piloni, scura e limacciosa, il rumore è quello di un risucchio, frshhh...”. Guarda caso nel 1982, nei racconti di “ Comme l’eau qui coule”, in cui si narra ( in particolare nei primi due: Anna Soror e Un uomo oscuro), di amori malati,  Marguerite Yourcenar aveva proprio scritto: “Strana condizione è quella dell’intera esistenza, in cui tutto fluisce come l’acqua che scorre, ma in cui, soli, i fatti che hanno contato, invece di depositarsi sul fondo, emergono alla superficie e raggiungono con noi il mare”. Anna come Marianna nel “La lunga vita di Marianna Ucria” di Dacia  Maraini e come Useppe  del “La storia “ di Elsa Morante, è vittima di violenza ma, a differenza di Useppe che morirà stroncato da una grave forma di epilessia, tanto Anna che Marianna trasformano la loro menomazione in una fonte di affinamento fisico ed intellettuale: “che”, scrive la Maraini per Marianna: “vorrebbe tornare indietro ma ha anche troppo voglia di riprendere il camino, di percorrere la strada del suo destino fino alla fine  interrogando i suoi silenzi…interrotti solo una notte da un assurdo grido agghiacciante che traduce finalmente la memoria di ciò che fu….”. Per Anna le violenze sono ripetute ed iniziano molto tempo prima dei suoi tredici anni( come invece accade per Marianna ) e quest’ultima prima di Marianna si assolda dalla dipendenza emotiva del suo “Orco”. In questo viaggio, in cui la razionalità del giurista cede il passo alla sensibilità dell’uomo, Paolo Cendon è il notaio di Anna, come lo definisce lei stessa, ma diventa il notaio di ognuno di noi perché ogni qualvolta passiamo in mezzo all’Inferno ( e spesso lo facciamo senza la fortuna di una guida come Virgilio), al termine del viaggioad inferos per risale ab inferiis incontaminati e liberi, dobbiamo e possiamo come dice il narratore ( lo fa dire ad Anna, ma lo dice al lettore), impartire ordini alla nostra anima: “Tu lieve che sei come pensiero rimani pure. Tu vedremo, tu scompari. Tu che sei fresco entra un po’ meglio e allargati”.
L’esortazione finale è quella del titanismo leopardiano, esortazione a vivere come Prometeo e come la ginestra ed è l’augurio dell’Esterina di Montale, nel “Falsetto” a tuffarsi, comunque sia andata, nel mare della vita perché “un pezzo di suolo non erbato” si possa spaccare per far nascere una margherita.
Lettura altamente consigliata.
   
   

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