L’archeologia (archeologia anche del “sapere”) presenta, già di per sé, degli elementi che si prestano necessariamente ad una lettura e interpretazione etno – antropologica. Nelle fasi successive, quindi in ciò che definiamo stagione della storia, i popoli si sono incontrati con il concetto di Nazione.
La Nazione esprime una visione in cui il sapere della politica di un territorio è una geografia di una identità che si mostra con le sue caratteristiche e una precisa “morfologia” dei linguaggi.
Non può esistere un popolo senza il raccordo tra l’identità, l’appartenenza e l’eredità. Tutto ciò è una manifestazione etnica. Perché la consapevolezza etnica costituisce, a priori, una metafisica dell’anima dei popoli, ma soprattutto è lo scavo esistenziale di comunità presenti, in un definito contesto, in un determinato territorio.
I territori abitati da popoli migranti si incontrano con una cultura autoctona che permette l’intreccio di civiltà riceventi tradizioni e di civiltà che proiettano spazi ed elementi di civiltà. Viviamo in una storia “meticciata”. I processi culturali che si consegnano al presente e di conseguenza all’immediato futuro formano una ragnatela o una griglia di valori il cui approccio è esistenziale. Ma tutta l’esistenza di un popolo si poggia sulla affermazione di una identità che è sottolineatura etnica.
Sia le migrazioni storiche che quelle delle epoche moderne vivono nell’incanalatura di una storia che è e resta eredità. D’altronde un’etnia, in una chiave di lettura antropologica, è il portato di una eredità che traccia cammini di esistenza. Il legame tra l’antico e il nuovo delle migrazioni consiste proprio nell’affermazione di un dato etnico che diventa espressione di un raccordo all’interno di una dimensione che è quella di dare un senso alla memoria.
La memoria di un popolo si regge, appunto, nella tutela dei valori “etnici” consolidati nelle nuove appartenenze. Ovvero lo specchio dell’identità dei migranti, portatori di una precisa etnia, si dichiara nella consapevolezza e nella definizione di una appartenenza che non vive il dramma del nuovo, ma si rigenera nella modernità convivendo armonicamente con la contemporaneità. Tutto ciò sul piano antropologico.
La domanda immediata che avanza va, comunque, verso altri “ordinamenti” sia di natura sociale e sociologica sia di natura economica: Perché si diventa migranti?
Ci sono, in una sintesi proprio limite, due estremi che portano a lasciare il suolo patrio: uno di “ordine” strettamente economico e l’altro politico. Si diventa stanziali in un luogo, nuovamente migranti ed esuli pur riconoscendosi in una nuova identità con una cultura di integrazione. Ogni popolo migrante si porta dentro un patrimonio che non è soltanto genetico ma culturale o di ragione culturale.
Quando si focalizza l’attenzione su un tale patrimonio la realtà storica va identificata ed è proprio questa che si decifra nel legame tra antiche e nuove migrazioni. La storia di un popolo, in fondo, si definisce nella sua “etnicità” che è la vera chiave di lettura tra processi di appartenenza e modelli di nuova identità.
Una consistenza di fatto è nel trasformare la tradizione in una innovante percorso tra memoria e realtà.
Come nelle antiche migrazioni, così le nuove, in un processo integrante, devono poter far interagire la tradizione con la realtà del territorio. Sia le migrazioni dell’Est Europa che quelle del Mediterraneo o quelle del Sud Africa si pongono con una loro etnicità, che significa anche religiosità, all’interno di un processo che impegna una geografia dell’anima, usando una metafora, e una geo – politica dei territori.
È qui, certamente, che il presente della politica deve fare i conti con la storia. Anzi deve poter leggere la storia come testimonianza e da essa ricavarne le metodologie per convivere con il presente.
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