Napoli è ammuìna. Non è voce solo dialettale,
esiste in italiano «ammoinare», fare moine. Napoli è ammuìna di voci e
di conversazioni che si svolgono contemporaneamente e il cittadino sa
partecipare di tutte quelle intorno. Mi meraviglio, quando in televisione, due
si danno sulla voce e gli altri non riescono a capire. A Napoli tutti si danno
sulla voce e ognuno può seguire una dozzina di conversazioni. Questione di
esercizio: fanno così pure i buoni scacchisti giocando più partite alla volta e
senza bisogno di scacchiera.In un posto affollato l’orecchio è l’organo
maestro. La vista, poveretta, è circondata e può solo sbirciare un poco
innanzi. Meglio sa fare il naso, che può sapere quello che succede alle spalle.
Superiore è l’orecchio, che riceve anche attraverso i muri. Perciò Napoli è
stata gremita di teatri, quanto la Varsavia ebraica che parlava yiddish. Tra
numerosi in poco spazio si sviluppa il teatro, per necessità di mimica e di
scambio. L’ammuìna è sollecitata dalla densità.Sulle navi borboniche
era perfino un ordine dato ai marinai: "Facite ammuìna".
Allora
quelli che stavano a prua correvano a poppa e da poppa correvano a prua, mentre
quelli che erano in basso alle vele salivano e quelli in alto scendevano.
"Facite ammuìna" serviva a dare da lontano l’impressione di febbrili
manovre. Il teatro napoletano è scuola d’
ammuìna.A Napoli la mimica è inflessibile, non si può sbagliare l’angolo del polso, il
raggruppamento delle dita, il ritmo sincopato della mossa che deve significare:
"Tu che bbuo’?", tu che vuoi? Il forestiero si tradisce subito, prima
che apra bocca, non la sa eseguire. "Tu che bbuo’?" è un’esecuzione e
lascia minimo scampo di risposta.Chi e’ cresciuto sul lastrico di marciapiedi e
soglie, si trova iscritto all’anagrafe del posto più da spettatore che da
cittadino. Perfino nei litigi sanguinosi ci si
fa distrarre dall’esibizione rituale. Lo spettatore a Napoli paga sempre
un prezzo.Eduardo De Filippo: nessun napoletano nato nel 1900 può prescindere da lui. Dei
suoi innumerevoli personaggi conservo la commozione sorridente per un paio: zi’
Nicola di
Le voci di dentro, che si esilia dalla famiglia in un
soppalco e da lì comunica attraverso un alfabeto Morse fatto di petardi,
decifrati solo dal nipote. Zi’ Nicola, eremita in mezzo all’
ammuìna,
incarna la santità laica e sdegnata, la più valorosa virtù napoletana.L’altro
mio preferito è Michele Murri di
Ditegli sempre di sì, che rientra
nella vita civile dopo una permanenza in manicomio. Per sua necessità deve
prendere tutto alla lettera, aggrappandosi da naufrago alle parole per non
farsi sommergere dall’uso assurdo che ne fanno i sani. Combina equivoci, guai,
infine promuove una riconciliazione tra due fratelli, prima di rientrare nel
camerone degli allontanati. Ho riso come tutti fino all’indolenzimento degli
addominali con le situazioni di Eduardo, ma di più resto affezionato a questo
paio di ammaccati tenaci.De Filippo è stato autore immenso, e molto di più sconfinato
attore.
Per me sta sul gradino di Chaplin, senza poter aggiungere un terzo a
loro due. Napoli è stata e resta in cartellone per le scene del mondo grazie a
lui. Come ogni sconfinato non ha lasciato scuola, successori. Chi osa
ricalcarlo non raggiunge il rango di pappagallo, creatura capace di buona
imitazione. Come stanno i miei conti con Eduardo? In attivo per me, che resto
suo incantato spettatore. Non ho presso di lui alcun termine di comparazione e
accostamento: ammiro e basta.I fantasmi di La doppia vita dei numeri
non sono parenti dei famosissimi "questi" di Eduardo. I suoi erano
avanzo di superstizione, il mondo già li aveva licenziati. Quelli della mia
notte di capodanno sono invece pronti a farsi convocare, a giocare una partita
a tombola, seduti alla tavola dei vivi. I fantasmi rispondono a chi ha bisogno
di loro, come i santi. Le donne conoscono la formula.Non è segreta, è una loro
saggezza ben piantata in cuore, sede più sicura del cervello. "Il cuore è
un indovino", dice un proverbio russo. E uno in yiddish conferma: "Il
cuore è un mezzo profeta". Mi convince qualche frase collaudata da
esperienza di popoli e generazioni, anziché la sentenza di qualche maestro di
ragionamenti.
Dei filosofi ho letto volentieri quelli prima di Socrate, scrutatori del mondo
e delle sue energie. La storia del pensiero non la intendo come evoluzione,
Hegel non è più adulto di Talete. Lo stesso vale per l’Illuminismo: servì a
scrollare colonne e sgarrettare il palazzo dei Filistei, ma insieme a Sansone
ci è finito sotto. I fantasmi non possono essere abrogati. I Lumi non li hanno
cancellati, piuttosto li hanno custoditi nell’ombra. In queste pagine vengono
in visita e il primo riguardo verso l’ospite consiste nel non mostrare
sorpresa. La loro presenza è rara come la neve al Sud, che arriva a fiocchi e
si congeda a gocce. Intorno, la città sta celebrando il suo incendio rituale. E’
stato scritto:” Eduardo De Filippo è il più straordinario e forse l'ultimo
rappresentante di una drammaturgia contemporanea popolare, dopo di lui il
prevalere dell’aspetto formale ha allontanato sempre più il teatro da una
dimensione autenticamente popolare. E’ l’autore italiano che con maggior
efficacia, all’interno del suo meccanismo drammaturgico, favorisce l'incontro e
non la separazione tra testo e messa in scena. Affrontare le sue opere
significa insinuarsi in quell'equilibrio instabile tra scrittura e oralità che
rende ambiguo e sorprendente il suo teatro”.
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blog culturale fondato dalla giornalista Lilli D'Amicis