di M.Beatrice Maranò
Nella bellissima ricostruzione cinematografica di Martone della vita del grande Recanatese, con un Elio Germano che ha vinto per l'interpretazione di Giacomo, un David di Donatello, Tommaseo, in una scena del film lancia un'anatema : " ...di Leopardi nel '900 non rimarrà che la gobba " Mai affermazione fu così profetica al contrario e mai gli influssi ed i retaggi della poesia leopardiana nel '900 ed oltre furono così incisivi e numerosi: lo ricordiamo oggi data del suo compleanno ( nato a Recanati il 29 giugno del 1798)
Mi sarebbe piaciuto trascorrere questo ultimo fine settimana di giugno, a Recanati con una persona che ama e conosce Giacomo e che si approcciò alle Operette Morali in un'estate del liceo ...grazie ad un volume della biblioteca paterna dal quale si sentiva attratto come da una bella e dolcissima donna ..ma la vita, spesso, non può seguire come un aquilone, la sua spiccata fantasia ...e così mi ritrovo a rileggere queste righe scritte da me, un po' di anni fa, mettendo a confronto tre grandi del '900 ( Ungaretti, Saba e Montale) con il "giovane favoloso", intermezzando la lettura con qualche calata, nelle acque del Golfo
"Rileggevo umilmente, i poeti che cantano. Non cercavo il verso di Jacopone, o quello di Dante o quello del Cavalcanti, o quello di Leopardi, cercavo in loro il canto (…). Era l’endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era il canto italiano, era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli, attraverso voci così numerose e così diverse di timbro e così gelose della propria novità e così singolare ciascuna nell’esprimere pensieri e sentimenti: era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di una terra disperatamente amata”.
Sono queste le parole del nostro Giuseppe Ungaretti, che risentiva del clima di recupero della tradizione che aleggiava negli anni venti. Egli cercava “un’ancora di salvezza nel canto”. Chi meglio di Leopardi seppe leggere, interpretare, studiare e riportare, dopo un attento ascolto, i moti del cuore sulla carta, mediante il canto?
La sua lirica non è mai da intendersi come imitazione, ma come sfogo spontaneo del cuore, come "afflatus", per dirla con Cicerone, ma sostituendo al quasi quodam divino dell’oratore un impeto propriamente umano. La lirica non è né epica, perché l’epos è una estensione nel tempo pericolosa ed insinuosa della lirica, né è dramma che rappresenta, invece, imitazione, invenzione, chiara manifestazione di volontà di costruzione, ma è un canto che non conosce durata (pur avendo i suoi limiti) né leggi né regole: saper rappresentare dolori, gioie, afflizioni e pene nel momento in cui si provano. Proprio per questo concetto di lirica come “canto”, al di là degli elementi narrativi e drammatici, delle funzioni civili ed educative, siamo non tanto vicino ai canoni estetizzanti del Croce ma al concetto di lirica pura dei poeti decadenti. Del resto questa stessa tendenza ad abbandonarsi al canto senza complicazioni intellettualistiche e senza inibizioni è di Umberto Saba. Egli voleva intitolare, per evitare qualsiasi complicazione intellettualistica, “Chiarezza” il suo Canzoniere.
Inoltre testimonianza della volontà di far parlare il suo cuore senza alcuna inibizione, cosa che lo accomuna ai poeti della tradizione antica, è un’analisi quantitativa delle opere da lui scritte. Egli sapeva ascoltare, meditare, parlare, solo attraverso la poesia, e questa, proprio intesa come canto, dà un “sapore antico” alla sua produzione, così come le parole “senza storia”, le prime venute, le più semplici, le più quotidiane. È proprio parlando di quotidianità che ritorna immediato il confronto con il Leopardi, con quello che molti critici hanno definito “verismo”. Saper ritrarre le tranquille opere dei servi, il ritorno del lavoratore alla sua umile casa, le siepi, le aiuole, l’artigiano, l’erbaiolo, la vecchierella, il falegname, significa rendersi conto della realtà che circonda l’uomo, rappresentandola obiettivamente, e anticipare la descrizione della capra di Saba, della gallina, della sua Trieste, della sua bambina. Così come in Saba, anche in Leopardi a questo mondo così reale corrisponde anche una scelta lessicale e sintattica, attenta, vivace e spontanea, che rende bene, come ha detto il Sapegno, l'incontro del familiare col peregrino, del semplice con l'elegante. Ma vi corrisponde anche l'architettura metrica che come l'architettura delle case del paesaggio leopardiano e sabiano, è semplice e nella sua semplicità grandiosa. Egli infatti abbandona ogni
schermo fisso per dare ancora maggiore forza al suo elevatissimo canto. Protagonista del periodo leopardiano, come di quello di Saba, sono le parole, che hanno un valore fortemente evocativo , "lontano, antico", dice Leopardi, "poeticissime e piacevoli perché destano idee vaghe e confuse, indefinite e non determinabili ".Si determina così il passaggio alla parola musica degli autori del '900. La parola liberata dalla sua tradizionale razionalità, dal nesso logico- sintattico, da ogni peso storico, tende a farsi totalità creativa, forma dell'essere assoluto, cioè incarnazione della realtà più profonda. "Quando trovo", dirà Ungaretti, " in questo mio silenzio, una parola, scavata e' nella mia vita come un abisso". Nel ricorso alla parola- evocatrice, musica, il simbolismo deve molto all' influenza della musica di Wagner. Rimbaud, ad esempio, dice " floeurs, coeurs , soeurs" solo per un richiamo musicale. Ma questa potenza evocativa non deriva, nel Leopardi, né dall'arditezza delle metafore, ne' dalla suggestione analogica, ma dalla grande forza drammatica che ha il reale, rappresentato nella sua spoglia obiettività, quindi guardato dall'alto di una consapevolezza che non solo ne valuta la vanità, ma rende evidente il passaggio da un massimo di determinatezza ad un massimo di universalità, assurto cioè a simbolo universale della condizione umana. Ed in questo concetto troviamo tutto Montale con il suo " correlativo oggettivo". In lui c'è il costante impegno di trovare nella realtà obiettivamente descritta descritta un simbolo; niente mai e' fine a se' stesso, ma tutto richiama a qualcos'altro di più universale, ad una precisa condizione esistenziale, ad un sentimento, ad una sensazione , strumenti che, con un termine tecnico T.S. Eliot definirà appunto " correlativo oggettivo ", ma che in Montale saranno le stesse "occasioni", ( dal titolo della sua raccolta poetica).
La tecnica di Montale sotto quest'aspetto è diversa da quella di Ungaretti. Ungaretti si affida alla catena dei rapporti che l'analogia mette in moto, i suoi " ricordi" diventano " nuvole" nella "polvere della memoria", le sue stelle "tornano in alto ad ardere le favole". Montale, invece, ostinatamente, oserei dire quasi disperatamente, cerca il simbolo che la realtà assunta a testimonianza di vita gli offre. " Mia vita", dice, " e' questo secco pendio/mezzo non fine, strada aperta a sbocchi/ di rigagnoli, lento franamento". La stessa capra di Saba non è altro che un uomo dal viso semita che soffre per la sua condizione, e' lo stesso Saba. Però, in Leopardi, il paesaggio dalla realtà al simbolo universale avviene attraverso la memoria, la dimensione del ricordo con la quale si cerca di delineare un momento, una situazione, di cui poi la coscienza filosofica evidenzierà la vanità, il carattere non di esperienza umana e autobiografica ma di dolore universale. In Leopardi il momento negativo non è quello della precisione struggente del ricordo ma quello della razionalità, della consapevolezza, della caducità di tutto questo. In Montale, invece, il ricordo già rappresenta angoscia, precarietà, momento in cui " il calcolo dei dadi non torna". Infatti le crudeli , irreparabili forbici del tempo e del vivere cancellano, erodono volti, ricordi, occasioni, da qui il profondo pessimismo e la consapevolezza del " discendere, fino al vallo estremo nel buio, perso il ricordo del mattino".
Ungaretti e Montale, seguendo strade diverse, quasi opposte , sono partiti da una comune cultura e da un comune gusto, sviluppando e ampliando motivi ed anticipazioni tipicamente leopardiani. Ungaretti, attraverso un'assoluta adesione alla propria materia autobiografica, faticosamente riesce a trovare la forza per esprimere i suoi sentimenti attraverso la musica pura del cuore. Montale, invece, muovendo da un rassegnato rifiuto del dato sentimentale, tende ad una contemplazione oggettiva, in cui, come in uno specchio, si riflette e si consuma la sua disperazione. Costante nel grande poeta, e nei due poeti moderni, così come in Saba è il dolore. Il pastore del "Canto Notturno", rappresenta l'uomo di ogni tempo di fronte al mistero dell'esistenza : " (...) in quale stato che sia dentro covile o cuna, e' funesto a chi nasce il di' natale" . Egli paragona la sua vita a quella della luna, che e' destinata ad avere " corso immortale" come l'uomo e' destinato ad un "vagar breve"! Il modo in cui Leopardi interroga la luna non e' tanto diverso da quello con cui Montale interroga il suo meriggiare. In un assolato meriggio estivo, di fronte al paesaggio povero e scabro, il poeta percepisce uditivamente e visivamente il faticoso agitarsi della vita , della natura e approda ad un'amara meditazione sul significato della vita umana, paragonato ad un insensato procedere lungo un muro invalicabile. Linguaggio e realtà paesaggistica sono in Montale mezzi per estrinsecare un mondo interiore, una concezione del vivere i cui elementi sono una cupa angoscia esistenziale ed una consapevolezza di profondo " male di vivere" Diverso, sicuramente, rispetto a Leopardi, il mondo della natura: nel primo determina il dolore, il tedio, che è fatica e fastidio di vivere, nel secondo la natura viene coinvolta in questo universale dolore e ne è testimonianza. Anche gli animali sono coinvolti in questa sofferenza, nonostante che per un istante Leopardi li consideri beati per la loro inconsapevolezza.
Nel belare della pecora e nella sua risposta Saba manifesta non solo la concezione dell'animale fratello dell'uomo, ma soprattutto della sua comunanza nel dolore, perché il dolore è eterno e si manifesta nello stesso modo in tutti gli esseri viventi.Ma non solo negli esseri viventi, anche in un sasso; Ungaretti costruisce Sono una creatura, proprio sulla comparazione tra personaggio e pietra, elementi messi in relazione da un "come". Egli si sente un sasso, totalmente disanimato. Piange, ma la pietra è insensibile al suo pianto di uomo e, nella poesia, egli sa trasferire la presenza umana del protagonista in quella oggettiva del sasso. Per Ungaretti, "uomo di pena", "la morte si sconta vivendo". L'eterno, il caduco, il destino e il fine degli esseri, il rapporto tra noi e l'universo, "sentire il tempo, l'effimero in relazione con l'eterno", sono il soggetto delle poesie di Ungaretti, sono i misteri che la religione illumina ed, ecco, come si attua il collegamento con l'Infinito. Nell'Infinito Leopardi, attraverso una siepe e lo stormire delle frontde, passa ad uno spazio limitato e da un tempo limitato ad una dimensione eterna e tipicamente metafisica di spazio e tempo; le due realtà sono compresenti e, nel momento in cui egli sente in sè l'assoluto, prova un brivido quasi religioso e il "naufragar" gli è "dolce in questo mare". Commento ed eco interiore dell'Infinito è senz'altro il "m'illumino di immenso" di Ungaretti.
Nel Canto Notturno il grido che il Leopardi rivolge al cielo, che rappresenta la volta di un tempio di cui però non si conosce il dio né si sa se esista un dio, è il grido ungarettiano che aspira ad un superamento della condizione dolorosa dell'uomo. Mentre la risposta al grido di Ungaretti è nella religione, quand'egli recupera la fede cristiana superando il concetto di vita come "corolla di tenebre", la risposta al grido leopardiano non viene nè verrà in questo canto. Per lui cotidie morimur, come Seneca, e se è così tota vita discendum est, e tota vita discendum est mori.
Ma se la vita è un pendolo oscillante tra noia e dolore perché continuare a vivere? Shopenhauer aveva risposto: per convertire la volontà senza suicidarsi, perchè il suicidio non è volontà di vivere, ma volontà di vivere meglio. Leopardi non crede alle soluzioni ideologico-filosofiche e, tanto meno, come già detto, religiose. Non ha fiducia nella teoria hegheliana del "tutto è bene perché tutto ragione realizzata", o in quella ironicamente voltairiana del "migliore dei mondi possibili", o in quella manzoniana del "chi dava tanta giocondità è per tutto e non turba la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande". Leopardi diventa Prometeo. E allora la sua esortazione finale, è una esortazione a vivere, sì, ma eroicamente, con la consapevolezza della natura infinita e quindi della tendenza a superare il finito per ricollegarsi con l'infinito. Simile, non corrispondente del tutto a questa, è la soluzione, se una soluzione esiste, di Montale. Egli sa che alla poesia non possiamo domandare "la formula che mondi possa aprirci", ma questa ci può solo offrire "qualche storta sillaba e secca come un ramo", può cioè oggettivare una realtà che esiste: il cosmico male di vivere, la consapevolezza della negatività. Ma egli sceglie una titanica "indifferenza", norma di vita, dolorosamente negativa, ma unica soluzione al destino di dolore che accompagna uomini e cose, indifferenza emblematicamente sintetizzata nella fredda immobilità della statua e nel distacco della nuvola e del falco. La ginestra montaliana è il "rivo strozzato che gorgoglia", l'"incartocciarsi della foglia riarsa". Ma soprattutto ginestra è la margherita in Mediterraneo V, "questo pezzo di suolo non erbato s'è spaccato perchè nascesse una margherita". Come ha scritto C. Salinari la poesia di Montale dava voce alla nostra profonda infelicità ma ci ammoniva a guardarla in faccia, a non sperare consolazione. È così, e ancor meglio, con il personaggio di Esterina, che si annoda il filo logico con Leopardi e si realizza la soluzione motaliana che, nonostante tutto, esprime il grande amore del poeta per la vita. L'Esterina del Falsetto, "grigio rosea nube", sembra la Silvia leopardiana con i suoi "occhi ridenti e fuggitivi"; come la Silvia di Leopardi "lieta e pensosa il limitar di gioventù" saliva, così la giovane in Montale s'alza e s'avanza "sul ponticello esiguo sopra il gorgo che stride".
Anche il richiamo agli effetti uditivi sembra in comune: "sonavan le quiete stanze e le vie d'intorno al tuo perpetuo canto". La vita della fanciulla, spera Montale, non le renda "un suono, qual d'incrinata brocca percossa", ma sia per lei "un concerto ineffabile di sonagliere". Entrambe sono simbolo della giovinezza e delle speranze che accompagnano questa età, in entrambe i poeti cantano le gioie dell'attesa, ma mentre il Leopardi, della fase del pessimismo cosmico, vede in lei anche l'angoscia, al pensiero, già per lui attuato, della misera fine di tante speranze, Montale ripone nella giovinetta tutte le speranze che egli "della razza di chi rimane a terra" non ha visto realizzate. Il mare e la vitalità di questa incredibile creatura, che con un "crollar di spalle dirocca i fortilizi del suo domani oscuro" e s'abbatte "fra le braccia" del suo "divino amico" che "l'afferra", rappresentano una gioia fisica e spirituale di vita che aprono, nel pessimismo montaliano, il varco ad un sorriso.
Soluzione diversa dà del pessimismo Saba. Egli ha avuto, come e più di Leopardi, la condanna di dover compiere un viaggio ad inferos ma è riuscito non solo a compiere il viaggio di ritorno, cosa che in modo tutto intellettualistico e particolare è riuscito a fare anche il Leopardi, ma il suo viaggio è stato non una condanna (della natura) ma un privilegio perché egli è risalito ab inferis incontaminato e libero. L'attualità della poesia di Saba, infatti, è da riconoscersi soprattutto in questo: egli appartiene di diritto alla grande generazione europea degli interpreti della crisi dei valori del nostro secolo, così come Leopardi ha saputo interpretare la crisi di valori del secolo precedente. Ma Saba non è rimasto prigioniero; la sua poesia è "onestà", perché rispecchia nel "canto" la libertà della vita.
"La nostra ragione non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e non solo il dubbio giova a scoprire il vero, ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa, e sa il più che si possa sapere.» Queste parole, riferite alla sorella Paolina e che possiamo leggere nello Zibaldone, segnano uno dei punti più alti della pellicola cinematografica che con il titolo " il giovane favoloso", ripercorre la vita di Giacomo Leopardi. La ricerca del vero è punto nodale nella riflessione poetica e filosofica di Leopardi. “ Il mio sistema introduce non solo uno Scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che, secondo il mio sistema, la
ragione umana per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo; anzi esso contiene il vero, e si dimostra che la nostra ragione, non può assolutamente trovare il vero se non dubitando; ch’ella si allontana dal vero ogni volta che giudica con certezza; e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di Cartesio ec. v. Dutens, par.1. c.2. §.10.), ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere.” Basti pensare, a puro titolo di esempio, al Canto di un pastore errante dell’Asia, ove il poeta recanatese, sotto le spoglie di un pastore, pone quesiti esistenziali alla Luna, simbolo metafisico alla stregua di un profeta di Dio. Questi riguardano soprattutto il fine dell’esistenza, perché “alcun frutto indovinar non so: (…) a me la vita è male”.
Qual è il fine del vagar immortale della Luna, quale quello del vagar mortale del pastore, simile alla faticosa salita di un vecchio per un pendio, che si concluderà con un fatal burrone? Perché questo “eterno scolorar del sembiante”, sublime espressione che indica la corruzione, il disfacimento, il processo creazione-disgregazione, voluto dalla Natura e già oggetto d’esame nel Dialogo della Natura e di un islandese? Se già il nascere rappresenta un rischio di morte, e il compito più importante di chi ci pasce in altro non sta che nel rincuorarci della nostra venuta sulla Terra; se il piacere effettivo, unico scopo che l’uomo ricerca, è irraggiungibile e la mancanza di dolore di per sé non è piacere, ma noia, perché vivere? Il pastore, presumendo che siano solo gli esseri umani, dotati di maggior sensibilità e intelletto, a provare noia, invidia dunque il gregge, “perché giammai tedio non provi”. La “comprension del vero” porta con sé tristezza; sensibilità, intelletto e auto-coscienza noia, tedio. Ma vero è semplicemente riconoscere quanto è fragile l’essere umano: non è la scoperta di una grande legge che domina l’universo, perché “arcano è tutto, fuor che il nostro dolor” e “i destinati eventi move arcano consiglio”.
Nell’ Ultimo canto di Saffo» emerge la semplice constatazione che, se è vero che nessuno è mai vissuto felice sulla Terra, non lo potrà essere nemmeno Faone. Saffo, come ogni essere umano, è “grave e vile ospite addetta, dispregiata amante”: la Natura è una matrigna, una padrona di casa che, invitati gli ospiti, d’essi non si cura. Strumenti consolatori non devono essere “gli inganni dell’intelletto”, che fanno credere all’uomo: “al goder son fatto!”, illusioni che pungolano l’umanità a porre le basi fondanti della società su “superbe fole”, ma un altro tipo di illusioni: quelle della poetica emotiva, ingenua e corporale degli antichi, caratterizzata dall’indeterminato, dall’indefinito, dal raro, dal lontano, dall’antico, dal peregrino. L’infinito è proprio l’esempio del piacere :”tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare” dato dal superamento, per mezzo dell’intelletto, del confine spazio-temporale.
Così, in Alla luna , per quanto l’oggetto della ricordanza, e poi rimembranza, sia di per sé triste, poiché la gioventù del poeta fu tribolata, ciononostante l’atto del ricordare è piacevole, perché richiama alla mente la fanciullezza, età delle dolci illusioni. Ma tutto passa “e quasi orma non lascia”: il dì volgare succede al festivo e il canto che si ode in lontananza lentamente, ma inesorabilmente, svanisce. La gioia e la speme del sabato precedono la noia, la tristezza e “l’usato travaglio “della domenica, così come la maturità, tragico momento del rendersi conto, rompe l’estasi illusoria, ma quanto mai, per chi la vive, reale della fanciullezza. È per questo che non bisogna attendere impazientemente l’età adulta: le sorprese che ci riserverà non saranno piacevoli. Il piacere, infatti, non è mai presente: è speranza nel futuro o ricordo del passato (“frutto del passato timore, gioia vana: uscir di pena è diletto fra noi”). Il che “è quanto dire: è sempre nulla”. A siffatta concezione della conoscenza del vero non può che accompagnarsi una severa critica nei confronti del supposto progresso.
In Leopardi essa si concentra principalmente nelle Operette morali e nella Ginestra ed è compiuta per mezzo di una sferzante condanna al proprio secolo, definito come il “secol della morte” il secolo delle masse (ove l’individuo non conta più nulla, il mediocre cede il posto al pessimo e la cultura è figlia delle “gazzette”), il “secol superbo e sciocco”, che si bea di quelle che crede “magnifiche sorti e progressive”, che “libertà va cercando” rendendo schiavo il pensiero, che mostra le spalle al vero in favore di “superbe fole”, che inneggia all’antropocentrismo anziché riconoscere nella Natura un nemico comune da combattersi compattamente.
Da codesta riflessione sull’esistenza umana Giacomo Leopardi non giunge però alla conclusione che si debba rinunciare alla vita e dedicarsi completamente e solo agli studi: già il Tristano delle Operette Morali afferma che i libri sono nulla. Ed è proprio a quegli anni che risale quella che probabilmente è la poesia più intima ed autobiografica di Leopardi: Il passero solitario. In essa l’autore traccia innanzitutto una breve quanto intensa descrizione del suo trascorrer di giovinezza: “Sollazzo e riso, della novella età dolce famiglia, e te german di giovinezza amore, sospiro acerbo de’ provetti giorni, non curo, io non so come; anzi da loro quasi fuggo lontano”. Indi, sottolinea la distonia tra sé e la Natura: da una parte, il passero, solitario per natura; dall’altra, il poeta, solitario perché incapace d’esser altro. “Pentirommi, e spesso, ma sconsolato volgerommi indietro”.
Attualissimi quindi la poesia e il pensiero di Leopardi. Egli sapeva di non avere interlocutori nell'Ottocento e, quindi, guardava a noi, al Novecento, e oltre come a secoli di uomini interamente umani. A noi proponeva "un'alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura e contro alle cose intelligenti" per una "futura civilizzazione". Il discorso, ricchissimo, su di lui rimane aperto, proprio come rimane aperto verso di noi il suo, dagli infiniti e fecondi sviluppi.
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