Francesco Lorizio intervista il fotografo grottagliese
Ciro
Quaranta è un artista della fotografia d’autore. Lui cerca l’uomo in ogni
suo scatto, inteso come una finestra
dell’anima. Va in cerca delle fatiche da intrappolare nelle sue foto, affinché
restino immortali.
Com’è stata la tua infanzia?
Sono cresciuto in una famiglia con sani
principi. Io ero un bambino molto timido e, questa riservatezza mi è rimasta
anche in età adulta, ma grazie alla fotografia, sono riuscito ad affrontare
meglio questo mio piccolo limite.
A che età hai capito che la fotografia
sarebbe stata la tua passione?
Avevo 16 anni quando iniziai a lavorare,
ma poi, col passare del tempo, mi resi conto che lo studio era importante. Frequentai
così l’istituto tecnico industriale serale. Lì conobbi un sacco di miei
coetanei, ma strinsi amicizia in particolare con una cara persona che mi fece
conoscere il magico mondo della fotografia. Infatti, prima di andare a scuola,
insieme andavamo in uno studio fotografico e lì cominciai ad interessarmi a
quella che sarebbe poi divenuta la mia passione che mi avrebbe aiutato a
sconfiggere la mia timidezza.
Hai incominciato frequentando uno
studio fotografico?
Frequentando lo studio, mi sono
appassionato allo sviluppo di una foto, così ho comprato la mia prima macchina
fotografica e ho dato inizio alla mia attitudine.
Com’era il modo di fotografare degli
anni ’80?
Negli anni ’80 i giornali ingaggiavano
dei fotografi per raccontare il mondo, ciò faceva del reporter un giornalista
che al posto della macchina da scrivere, aveva la macchina fotografica. Ora, il
modo di procurarsi le foto, è più rapido, ma non sempre giusto, perché si sminuisce
il ruolo del fotografo e della fotografia in sé.
Ti sei mai interessato di fotografia di
moda?
Il mondo della fotografia ha tanti
rami, c’è chi si occupa del mondo della moda, chi del ramo viaggi, still life,
natura, ritratto e tanti tanti altri. Le mie foto riguardano prevalentemente il
mondo del lavoro.
Che cos’è lo still life?
È la promozione di un prodotto tramite
la fotografia, risaltandolo, grazie ad un gioco di luci e a delle macchine
fotografiche specifiche.
Quando fotografi, che cosa cerchi dalla
tua lastra?
Io cerco emozioni. Ad esempio, quando
sono stato invitato da un mio amico a fare delle fotografie in un centro diurno
per disabili, non conoscevo nessuno, ma sono rimasto colpito dai ragazzi e
fotografavo con discrezione, mentre loro svolgevano le loro attività
quotidiane. Quelle foto, in qualsiasi mostra le abbia portate, hanno fatto e continuano
a far emozionare.
Viaggiare ha cambiato il tuo modo di fotografare?
Se sì, come?
Viaggiare ha cambiato moltissimo il mio
modo di fotografare. Ho avuto la possibilità di conoscere altra gente e, nei
volti, scoprire un mondo. Sono stato ospite di altre culture e ho aperto la mia
mente a nuovi sguardi. Viaggiare rende liberi.
Ti è capitata l’occasione di
intraprendere il lavoro di fotoreporter?
Tutti i miei lavori si possono definire
da fotoreporter. Ho iniziato grazie ad un mio amico non giornalista che mi ha
commissionato per delle foto, poi, ho scelto il tema del lavoro perché sapevo
come e dove muovermi, in quanto è un mondo che conosco benissimo. Nelle rughe
di un lavoratore, c’è la fatica di un uomo e il mio scopo è stato quello di
immortalare tale fatica.
È
difficile entrare nel circuito del fotoreporter?
È difficile intraprendere la
professione del fotoreporter perché bisogna avere strette collaborazioni con le
testate giornalistiche. Io, oltre ai tanti lavori da fotoreporter che ho
svolto, ho collaborato anche con l’Università di Torino. Alcuni studiosi
infatti, hanno realizzato delle ricerche sulle nuove realtà socio-culturali,
sulla scia del grande antropologo Ernesto De Martino e del suo libro-
documentario “I viaggi nel Sud”, redatto negli ’50.
Com’era
la procedura per sviluppare le fotografie quando non c’era l’uso dei computer?
La prima fase era acquistare gli acidi
e l’attrezzatura adatta per sviluppare la pellicola. Una volta sviluppata, si
facevano dei provini a contatto, in modo tale da vedere, dal negativo, quale foto
fosse interessante da stampare. Scelta la foto, si preparava la camera oscura: si
metteva il negativo con il portanegativi nell’ingranditore e poi si stampava
con i vari chimici; si lavava la copia e la si appendeva con le mollette ad asciugare. L’ultima
fase riguardava il post-produzione, ossia, si andava a ritoccare con un
pennello finissimo, le imperfezioni e così la fotografia era finalmente pronta.
Com’era
fotografare in analogico? Tu lo usi ancora?
Sono affezionato alla fotografia in
analogico, mi emoziona ancora adesso. Infatti uso ancora una macchina da quando ho iniziato
a fotografare 35 anni fa. Adopero anche il digitale, sono stato uno dei primi
ad acquistare una macchina digitale nel 2003.
Perché
fotografi spesso in bianco e nero? L’uso del bianco e nero che cosa aggiunge
alle opere, sia in generale, sia secondo il tuo parere.
Il bianco e nero, per me, non è realtà,
mi da la sensazione di immaginare un mondo a parte, le foto non invecchiano.
Racconto un episodio: poco tempo fa, feci vedere una fotografia che scattai 35
anni fa ad un mio amico e lui non sapeva datarla. La magia del bianco e nero è semplicemente
questo.
L’uso
di smartphone ha sminuito la fotografia?
Io, come principio, non sono contrario
all’uso degli smartphone, perché la foto è per tutti reperibile al momento in
cui c’è qualcosa da documentare, però ci sarebbero due limiti: la qualità della
fotografia e l’impossibilità di archiviarla in quanto, al giorno vengono
scattate col cellulare decine e decine di foto che poi, per mancanza di spazio
in memoria, verranno puntualmente cancellate.
Quali
tecniche utilizzi per fotografare?
Di natura sono un uomo timido e riservato,
ma quando ho in mano la macchina fotografica, mi trasformo, mi guardo intorno,
cercando uno sguardo, entrando in empatia. Prima cerco un contatto, parlandoci,
poi comincio a scattare. A me non piacciono le distanze, non uso zoom, a me piace
fotografare da vicino. La maggior parte delle mie foto è fatta con l’obiettivo grandangolo
che permette di fare foto da vicino, inquadrando anche tutto ciò che circonda
il soggetto. Poi, in fase di sviluppo, ci sono diverse fasi come la stampa, il
taglio e la composizione.
Se
non avessi fatto il fotografo, cosa avresti fatto nella vita?
Mi sono diplomato in elettrotecnico e
per un periodo ho anche lavorato e fotografato contemporaneamente. Avrei svolto
con più dedizione il mestiere dell’elettricista, un mestiere molto basato
sull’intelligenza, se non ci fosse stata la fotografia, una passione che è
diventata un lavoro.
Fare
il fotografo appaga economicamente?
No, non credo assolutamente perché, ad
esempio, il tipo di fotografia che faccio io non è commerciale. In generale, purtroppo, il lavoro del
fotografo sta perdendo il suo ruolo. Prima i cataloghi per promuovere prodotti,
ci venivano commissionati dai clienti, oggi invece è il grafico che cura anche
l’aspetto fotografico.
Cosa
ne pensi di fotoshop?
È un bello strumento, io, però, lo uso
con parsimonia. Prima scansiono in negativo le foto che diventano file
digitali, poi scelgo quelle da stampare, taglio le parti che non mi servono,
vado a sistemare la giusta scala di grigi e con la gomma digitale tolgo quei
puntini che prima toglievo col pennello.
Per
te, una fotografia, che cosa rappresenta?
È una mia emozione che, piacevolmente,
condivido con la gente.
Quante
e quali mostre fotografiche hai tenuto? Hai mai vinto un premio in qualche
concorso fotografico?
Sono stato il primo vincitore di
Alberobello Fotografia, che era una manifestazione mondiale, dove partecipavano
come giurati nomi del calibro di: René Burri, Martin Parr, Leonard Freed,
Elliott Erwitt, Ferdinando Scianna, Gianni Berengo Gardin, Gabriele Basilico,
Mimmo Jodice, che hanno fatto la storia della fotografia mondiale.
Inoltre, Ho tenuto tante mostre, a
partire da quella al Museo Archeologico di Taranto, passando poi ad un’altra in
provincia di Firenze sulle ceramiche. Con il patrocinio dell’ Inail, ho
organizzato una mostra itinerante in tutta la Puglia, dal titolo “Valori-
lavori”. Recentemente ho realizzato una mostra sulle bande musicali ad
Acquaviva delle Fonti con sessanta foto.
Qual
è la più bella fotografia che tu abbia mai scattato?
Quella che mi è rimasta in testa.
Racconto un episodio. Nel ’82 mi ricoverai a Brindisi per un infortunio sul
lavoro. C’era un corridoio, il mio sguardo si soffermò su un signore anziano, con
la valigia di cartone che stava aspettando di essere ricoverato. Quella
immagine, ancora oggi, mi ritorna in mente. Una foto nasce prima nella testa,
poi, se hai una macchina fotografica a portata di mano, la scatti senza avere
la sfortuna di non poter immortalare quel momento.
A
che cosa pensi prima di addormentarti?
Con l’età si fanno pensieri spirituali.
Io ultimamente, prima di addormentarmi, faccio pensieri volti al Signore.
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blog culturale fondato dalla giornalista Lilli D'Amicis