Il personaggio descritto nei «Promessi sposi» si chiamava in
realtà Virginia Maria de Leyva Fu murata per anni in una cella di penitenza
Venne processata nel 1607 per la sua relazione con un tal Egidio e per una serie di delitti.Aborti,
violenze, assassinii, prostituzione: nella vicenda furono coinvolti altre suore
e un prete Sotto interrogatorio confessò la tresca, ma sostenne di essere stata
vittima di un maleficio.Sulla Gertrude dei Promessi sposi, cioè sulla Monaca di Monza, si sono scritti fiumi
di parole.
Larga eco ebbe anche, una quindicina di anni fa, un ponderoso volume
di quasi mille pagine su Vita e processo di suor Virginia Maria de Leyva,
scritto da un' équipe di storici, filologi, critici e giuristi, coordinati da
Umberto Colombo. Una volontà devastata! Qui, fra molte congetture spesso ben
argomentate, fra saggi di raffinata erudizione, venivano pubblicati per la
prima volta integralmente gli atti del processo contro suor Virginia e Paolo
Osio, e tuttavia per la maggior parte delle pagine si continuava a gravitare
intorno alla storia di Gertrude e di Egidio, liberamente interpretata da
Manzoni, tentando di infrangere la censura sublime dell' autore dei Promessi
sposi.
Manzoni, ognuno lo sa, tagliò corto. «La sventurata rispose». Gertrude cedette ad Egidio ed entrò nell'
inferno dell' amore sacrilego e quindi nel buio del peccato. La sua storia più
vera (e più grande) era stata tutta prima di quel passo: la tragedia di una
volontà devastata dalla violenza del principe padre, ma anche della sua volontà
giovinetta corrotta dall' orgoglio. Poi, dalla storia di Gertrude, Manzoni
trasse spunto soprattutto per scrutare fino in fondo il dramma di una psiche
malata: per rappresentare nel racconto, con il rigore di un modernissimo
analista, la deviazione di una mente, che si chiude con pericolo nelle sue
«fantasie», che fa legge dell' universo il teatro capriccioso e potente (di una
falsa potenza tuttavia) delle proprie emozioni, trasformate in pensieri o
peggio in risolute decisioni per una scelta del suo destino. Gertrude recrimina
sul passato, fantastica sul futuro, ma non vive mai nel presente: il suo
viaggio mentale si riduce così a una sola rischiosa «fantasia», che la aliena
dal reale. Tutto ciò è invenzione certamente: è una grande scommessa narrativa
che dà però ai fatti una forte verità, mentre la riesce a interpretare con
magistrale psicologia. Se si fa un viaggio a ritroso dal breve romanzo di Gertrude
contenuto nei Promessi Sposi al libro allestito da Umberto Colombo, questo
libro tanto vasto si fa piccolo, nonostante gli infiniti chiacchierii, le
tantissime argomentazioni molto dotte, che finiscono per lasciarci alla fine
perplessi e persino delusi. Perché i fatti che si narrano, attraverso le
ricostruzioni storiche e gli atti del processo del 1607, sono nella sostanza
assai scarni. C' è la tresca d' amore tra Virginia e Paolo, a cui tengono corda
altre suore e un prete intrigante e ambiguo. Ci sono un bambino nato morto,
aborti e una «putta» che invece sopravvive. E c' è infine la catena dei
delitti. La realtà, quando viene trascritta nei verbali di un processo, lascia
sempre poco spazio alla verità della vita: si esaurisce in pochi fatti
essenziali, privati del loro contorno di dolore o di piacere. Questi fatti
possono essere atroci qualche volta, risultano comunque troppo spesso banali.
Il «caso bruttissimo» di un amore proibito e blasfemo porta gran «desordene»
nel convento di Monza.
Come è ovvio, ha inizio con un idillio, con uno scambio
di sguardi. Paolo fa la posta a Virginia da un piccolo cortile che è visibile
da una finestrina del convento. La suora se ne accorge. Dapprima respinge
sdegnosa quell' uomo sfrontato, poi pian piano ne resta lusingata. Manzoni su
di ciò non tace. Ciò che omette sono i dettagli della tresca. Virginia riceve
Paolo nel parlatorio, nottetempo. Lei sta ancora «dietro» la grata, lui «di
fuori». Poi ci sono gli scambi di «lettere amorose» e i doni che Egidio (Paolo)
fa avere a Gertrude (Virginia). Sono bei fiorellini da principio, poi un paio
di guanti eleganti, quindi un crocefisso d' argento e libri religiosi.
Finalmente Virginia fa entrare nel convento «con chiavi contraffatte detto
Osio»: e fu così che Paolo la «conobbe carnalmente». L' incontro è replicato.
Paolo passa notti intere nel gran letto di Virginia e la «mala pratica» dura
per «tre anni»: «tre volte la settimana, et quando più et meno, secondo l'
occasione». «La sventurata rispose», dice Manzoni. Se si leggono i verbali del
processo la sua non appare una censura solo pudibonda, è piuttosto un'
omissione pietosa di una vicenda di uno squallore senza fine. Certo, nel
processo, suor Virginia si difende come può e racconta ai giudici che la
propria la passione d' amore ebbe inizio con uno stupro. «È la verità ch' io ho
fatto l' amore», dice, «ma però amore sforzato, che per conto d' amore
volontario non l' avrei fatto con il re di Spagna». Questa monaca sfacciata è
un po' rozza ma sicura nel suo dire. Non si deve tuttavia dimenticare che parla
durante un processo ad alto rischio, per cercare di difendersi. Allora non
stupisce che all' idea dell' amore associ quella di un «malificio», di cui
diventa vittima. Suor Virginia dice insomma di essere stata posseduta da un
demonio tremendo. Non smentisce proprio nulla: racconta con precisione come
avvennero gli incontri, dove, come, quante volte, ma sorvola sui suoi
sentimenti, taglia corto sulle proprie emozioni. Nella lunga storia d' amore
con Paolo ci fu soltanto una «forza diabolica» invincibile. Punto e basta. La
censura di Virginia sull' amore, negli atti processuali, è più forte persino di
quella di Manzoni nel romanzo. Capita così che la storia più piccante diventi
una storia di incantesimi subiti e - per rivalsa - di tantissime penitenze, di
flagelli della carne, di scongiuri persino curiosi. Suor Virginia - così dice -
fu stregata leccando una «bianca calamita» del suo Paolo. Per potersi
affrancare dalla schiavitù di quell' uomo-demonio giunse anche a mangiarne le
feci con «il fidigo» e «le cipolle». Questo rito un po' schifoso non sortì
alcun effetto: il demonio di Virginia era forte, resistente a qualsiasi
esorcismo. La lettura dei verbali del processo rende ancor più grande e
necessaria la reticenza di Manzoni. La Gertrude dei Promessi sposi rimane l' eroina
di una grande tragedia, che parte da lontano, da una violenza subita che si
trasforma pian piano in una deviazione mentale. Nei documenti, nonostante lo
spreco di tinte assai cupe, suor Virginia è l' eroina più modesta di un romanzo
d' appendice. La tragedia C' è un momento tuttavia in cui le carte processuali
rappresentano un' autentica tragedia: ed è quello spaventoso delle pene. Suor
Virginia de Leyva viene infatti murata viva, in una cella strettissima di
penitenza a vita. Paolo Osio, il suo uomo, è condannato alla pena capitale:
viene prima «tenagliato», torturato vale a dire con tenaglie incandescenti,
viene poi mutilato della mano «dritta» e alla fine impiccato. Non basta questo
strazio ai giudici tremendi del tribunale. Il corpo dell' amante blasfemo e
assassino verrà squartato: e i pezzi di carne saranno esposti nei luoghi di
ogni suo delitto. Lo spettacolo grandioso e violento della pena vuole
cancellare la realtà del peccato: è questa l' immagine più vera del quadro
secentesco che vien fuori dalle pagine del processo. Manzoni descrive le cause
del peccato: sulla pena sorvola. La pietà nei Promessi Sposi prevale persino
sullo spavento e non poteva essere diversamente. Lei era nata nel 1576 a Milano, a Palazzo Marino, da una
nobile famiglia spagnola. Senza alcuna vocazione, nel 1591 pronunciò i voti a
Monza, nel monastero di Santa Margherita: assunse il nome di suor Virginia
Maria. Per la sua istruzione e nobiltà fu chiamata «la signora» e divenne la
maestra delle educande.
La finestra di Virginia dava sul giardino della
famiglia di un giovane, Paolo Osio (l' Egidio del Manzoni), con il quale ebbe
una relazione amorosa. Nacquero due figli: un bambino nato morto e Alma
Francesca Margherita, che fu affidata a una balia. Per proteggere la loro
tresca uccisero due suore, una gettandola nel Lambro e l' altra in un pozzo
fuori Monza. Il 25 novembre 1607 Virginia Maria fu arrestata su ordine del
cardinale Federico Borromeo, arcivescovo di Milano. Il caso fu affidato a
Mamurio Lancillotto, un giurista implacabile che fece torturare la monaca per
farla confessare. La sentenza: Virginia Maria fu murata viva in una cella larga
tre braccia e lunga cinque. Solo tredici anni dopo, nel settembre 1622, il muro
che ostruiva l' entrata del suo camerino fu abbattuto e lei poté rientrare
nella comunità monastica di Santa Valeria, dove morì il 7 gennaio 1630.
Istruttivo,vi leggo sempre con grande interesse.
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