di
Pierfranco Bruni
Ad un anno dalla scomparsa di Giorgio Faletti. Un anno
che mi ha impegnato a rileggere alcuni dei suoi libri. Romanzi e atmosfere in
un gioco in cui il linguaggio ha la forza della sceneggiatura e della
dimensione immaginaria. Una letteratura fatta di impressioni e di espressività,
di magie e di simboli, oltre alla invenzione dei personaggi che incatenano le
storie e le avventure.
Proprio nelle settimane scorse è stato pubblicato il
suo libro postumo “La piuma”. Un itinerario fabulisto – affabulatorio sul filo
della poesia e, appunto, della fiaba. Si racconta l’avventura di una piuma. Ad
incipit, come citazione, c’è un una finestrella che dice: “Anche il peso lieve
di una piuma scende/se c’è un soffio d’aria che se la riprende/per follia di
vento può salire su ma poi torna giù”. Ovvero “La regola del filo a piombo” di
Giorgio Faletti e Angelo Branduardi.
Sottili incisi che hanno un legame tra la “sostanza”
del dato letterario e la vita: “Non sono uno sciocco da
pensare che tutto potrà essere come prima, né di cercare di farlo credere a
te”. Giorgio Faletti. “Niente di vero tranne gli occhi”. Ho letto sempre con
molta attenzione i romanzi e i racconti del mio amico “pirandelliano”, che
aveva molto di Ionesco e di Kafka, oltre che di Hitchcock.
Gli
anni sono un intreccio di secoli. Avevo conosciuto Giorgio Faletti al Salone
Internazionale del Libro di Torino nel 2010 e poi nel 2011. Uno scrittore, con
la sua esperienza di attore, cantante, autore di testi, pittore, che mi
incuriosiva. La sua "seriosa" ironia e il suo sorriso appena accennato
lo rendevano ancora di più accattivante. Parlò di letteratura usando un
linguaggio altro rispetto agli scrittori che vogliono essere a tutti i costi
scrittori.
Faletti
non si perse mai dietro il linguaggio impostato. Pirandelliano fino a restarne
felicemente consapevolmente “prigioniero”. Uomo ironico e malinconico. Già
nelle sue canzoni, l'ironia si intrecciava con la malinconia. Ma questo
intreccio aveva un senso anche se il labirinto delle parole certificava anche
il suo umorismo.
“Io
uccido”: “L’uomo è uno e
nessuno. Porta da anni la sua faccia appiccicata alla testa e la sua ombra
cucita ai piedi e ancora non è riuscito a capire quale delle due pesa di più.
Qualche volta prova l’impulso irrefrenabile di staccarle e appenderle a un
chiodo e restare lì, seduto a terra, come un burattino al quale
una mano pietosa ha tagliato i fili”.
Ricordo.
Pirandello fu, comunque, un ritratto che ci accomunava. Non parlammo, però, mai
di letteratura in modo “professionale” o sul piano critico. Su Pirandello discutemmo
di recita e sogno. D'altronde agli scrittori non compete discernere del
breviario delle letterature comparate. Poi per Faletti vennero altri incontri
nelle misure del tempo e quel suo romanzo non smise di affascinare.
Dopo
Torino ci furono altri incontri. Altri confronti. Nella sua scrittura il
linguaggio è come se nascesse dall’immagine. Ovvero dalla costruzione di un
immaginario che si offriva già con dei personaggi predefiniti. Quella scrittura
non avrebbe una sua struttura narrante senza la centralità dei personaggi.
Giorgio Faletti. Morto a Torino
il 4 luglio del 2014. Era nato nel 1950 ad Asti. L’ironia era il suo viaggio,
come attore, come cantante, come artista. Una ironia che aveva l’umorismo nelle
coordinate esistenziali ma conosceva molto bene l’altra faccia della medaglia
che è il singhiozzo del dolore. L’ho ricordato come scrittore, ma il suo volto
ha l’immaginario di un cinema che rischia la contemporaneità per farsi verità.
“Miracolo
italiano” del 1994. “Elvjs e Merilijn” del 1998. “Notte prima degli
esami” del 2006 e poi 2007. “Baaria” del 2009. “Il sorteggio” del 2010. Titoli
di alcuni suoi film nei quali ha partecipato come attore. Quell’ironia non conosceva
la frugalità, ma il senso di un orizzonte in cui il cinema e la letteratura
costituivano una forma forte di espressività umana. Così come la canzone. Ma è
nello scrittore che si vive la malinconia dell’allegria. Da “Io uccido
a “Niente di
vero tranne gli occhi” e poi
“Fuori da un evidente destino”
, “Io sono Dio”,
“Appunti di
un venditore di donne”, “Tre atti e due tempi”.
Coprono un arco di tempo che va, cito solo i romanzi ma ci sono anche i
racconti, dal 2002 al 2011. Qual è lo snodo di questo personaggio?
L’immagine e la scrittura e tra queste due coordinate
si gioca la vita sul tavolo verde di una scommessa che è quella della vita e
della morte. Ha camminato sempre sul filo di una concessione al tema
dell’assurdo. Nel 1995 ci offre un album di canzoni dal titolo “L'assurdo mestiere”,
che è il titolo anche di un singolo. Testi cantati da Milva, Mina, Fiordaliso,
Gigliola Cinquetti oltre a quelli affidati alla sua voce. “Disperato ma non serio”
è l’album del 1990. Mentre “Condannato a
ridere” è del 1992. Un singolo suggestivo “L’ombra” è del 2011 nel quale si
ascolta: “Seguimi, una volta tanto fa qualcosa di diverso e vieni dietro a me metti il sole alle tue
spalle che davanti ci stia io una volta tanto lascia che il tuo passo segua il
mio”.
Nel suo gioco ad incastro c’è una profonda venatura
alchemica, alchimia non come ricerca ma come via verso l’Altro, come nel testo:
“L’apprendista stregone” con musiche di Angelo Branduardi. Una poesia del
magico percepire i sensi come in “Nudi”: “…sei una notte che passa e va via in
un momento e a due bocche di labbra cucite non strappa nemmeno un lamento, sei
una notte di luna, quante cose da fare, solo se volessimo, solo se volassimo,
solo se valessimo…di più”.
C’è un legame tremendo tra la canzone e l’iter
narrante dei suoi romanzi. La nostalgia del ribelle diventa la malinconia
dell’ironico. Il velame poetico è un attraversamento in un catturare le parole
nel sentiero di un linguaggio che diventa fortezza. Una forza interiore tanto
“da lasciare dei cerchi per terra come accade sull'acqua coi sassi” (in “La
ragazza è stata baciata”).
L’ho ascoltato, l’ho letto, ci siamo incontrati. Ci
siamo parlati con uno sguardo che aveva la “sensualità” di occhi sciamani
nell’ascolto di un vento che canta: “Per le carezze di mio padre e di mia madre
Per il futuro da leggere invano girando i tarocchi Per le linee della mano
diventate rughe sotto gli occhi Perché tutto è sbagliato ed è così perfetto Per
ciò che vinco e ciò che perdo se scommetto”.
E
scommettere bisogna, mio caro Giorgio, perché “Anche se a volte ci si spezza il
cuore In questa assurda specie di mestiere Che è l'amore” (in L’assurdo
mestiere”). L’assurdo, l’ombra o l’isola, lo stregone. Tutto tirato sul filo
che forma una ragnatela simbolico – reale in una tramatura di segni, ma anche
di penetranti fatti che i personaggi vivono. È una questione di lingua e di
profili, di storie e racconti che delineano una impalcatura narrativa
consistente sia sotto l’aspetto letterario che su quello dell’intreccio di una
intelaiatura realistico – rappresentativa.
Lo
ricordo. Con giovialità e con il sorriso accogliente di uno sguardo profondo
che, nonostante tutto, mascherava sempre una dolce e pungente malinconia. La
vita è fatta di appuntamenti. Mai di resoconti da rivedere. Lo ricordo. Un
ricordo che è memoria e dura tra gli anni insondabili. Mi risuona nella voce e
nell’anima una frase che non smette di bussare. Da “Io sono Dio”. Rimbomba:
"Io non esisto più. Sono un fantasma".
Cosa
aggiungere ancora? Silenzio e una rilettura di un suo libro. Forse è un
misterioso camminamento camminando (Branduardi) in questa vita che non concede
pause e quando una pausa si avverte il teatro non ha più luce accese e diventiamo
tutti dei marinai che vendono acqua di mare e sabbia di spiagge assolate e
notturne.
Un
sortilegio che richiama antichi echi. Echi che sono tra il volare della piuma
con la quale si recita nel sogno e il sogno è un divenire di immagini e di
invisibile. Ma c’è l’invisibile e la piuma traccia l’invisibile nel cielo e nel
vento: “Nessuno riuscì a vedere la piuma perché nessuno aveva tempo a
sufficienza per alzare gli occhi al cielo e riuscire anche solo a guardarla”.
Ma una piuma è sempre “fatta per volare”.
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