di Pierfranco Bruni
Siamo alla vigilia del Festival della Canzone italiana.
Sanremo. Non posso dimenticare due grandi maestri: Luigi Tenco e Franco Califano,
Luigi Tenco è una voce sincera, come la rosa bianca delle donne mediterranee o
sudamericane, di quella poesia
dell’anima nella fisicità degli incontri recitati da Franco Califano. Una lenta
malinconia che racconta amori e destini. Una indelebile “preghiera” degli
amanti che si perdono e si ritrovano per poi continuare a perdersi. E forse
alla fine incontrarsi ancora.
Il “Ciao amore ciao” di Tenco e Dalida (1967) è ne “L’amore
è fragile” (nell’album del 2005) di
Califano. Una poesia negli anni lunghi di un tempo piccolo e nella “maledetta”
ricerca di sconfiggere una “noia” che è
nella solitudine delle sere che aggroviglia vite, esistenze, storie, destini.
Una solitudine cantata con la voce della grandezza dell’estasi di Mia Martini
sia in “Minuetto” che ne “La nevicata del ‘56”.
Mai un filo di tristezza in Califano. Nei suoi testi. Di
malinconia certamente. Forse di amarezza. Forse di oblii o di ricordi
dimenticati. Certamente di una noia che è diventata una “filosofia di vita”.
Una filosofia del superamento delle ricordanze per abitare
quelle memorie che sono il centro di un camminare tra la vita e la parola
cantata, recitata, raccontata, vissuta. L’amore come sublime. Sia nella
vittoria della conquista sia nella fine dell’amore stesso che non diventa mai
storia consolidata ma avventura.
Il concetto di avventura nei testi di Califano è un termine
forte perché tutta la vita è nel destino di una avventura. Nel destino di una
“vacanza” nel cerchio dell’avventura.
Una avventura come incipit dell’esserci e come destino dell’uomo che
immagina un “possibile ritorno”. Questo “possibile ritorno” è nello scavo di
esistenze e nel sorriso che queste esistenze vivono cercando di sconfiggere,
nel quotidiano, quella malinconia che si aggrappa alle pareti del cuore e corre
lungo il labirinto della mente. Ma si ha sempre la consapevolezza, comunque,
che tutto è noia. Ma no, non c’è mestizia.
In Luigi Tenco c’è la filigrana di una “lontano lontano” che
si raccoglie in una verità che è recitata in “Un giorno dopo l’altro la vita se
ne va”. La vita se ne va sperando, comunque, che la vita possa cambiare:
“Vedrai vedrai che un giorno cambierà…”. Ma in Tenco è bastata la solitudine di
un attimo, in quel fine gennaio del 1967, per cambiare la sua vita in una lontananza che è diventata
definitivo distacco.
Una esistenza che Fabrizio De André ha racchiuso in quella
straordinaria “Preghiera in gennaio” e Califano, filtrando le sue esperienze di
vita, ha urtato i tentacoli della morte con la consapevolezza che “Tutto il
resto è noia”. Proprio questo testo è nella sua ironia che gli permette di
superare la fragilità della vita rendendola forte nei dettagli delle
malinconie.
Quel suo essere “matto” è una stregata vincente per superare
il tempo delle discordie e incidere nella vita con l’eros. L’eros lo rende
invincibile sia in termini di una sensualità ricca di pathos sia nella
consapevolezza che la musica finisce sempre. E se la musica termina il sogno di
un suonatore stanco, il viandante Califano, è uno scavatore di emozioni.
Di quelle emozioni che pongono il rischio sui miti
dell’indefinibile, che si registra sulla grigia che custodisce gli attimi.
Appunto gli attimi. “Ci sono attimi in cui un'alba chiara/ti sembra ricca di
poesia,/a volte invece guardi un tramonto/e senti tanta malinconia./Ci sono
attimi in cui non vivo più/e in quei momenti mi sento impazzire/e ho dentro
all'anima mille paure” (da “Attimi”).
L’alba e il tramonto vivono in quell’immaginario – realtà in
cui si può dipingere “l'anima su tela anonima” (da “Un tempo piccolo”). Attimi
e tempo piccolo. Sono questioni che vanno oltre la “ragioneria” dello spazio –
memoria perché “Se sono triste suono piano, se sono in forma canto forte/così
affronto la mia sorte” (da “La mia libertà”).
Ma ci sono di mezzo sempre l’età e l’amore. Lo spazio
nell’infinito e si contano gli anni ma l’amore non racconta gli anni. Il tempo
li conta e li rende sabbia nella clessidra ma l’amore raccoglie le emozione e
la sensualità nel tempo, che sembra fermarsi in uno specchio.
Gli anni rubati si incartano nel tempo soprattutto quando
l’amore è vivere. “Io più ti guardo e più ti guarderei,/sei bella./Se vuoi io
fermo il tempo mio per te,/se vuoi puoi gia legarti insieme a me,/se vuoi, se
vuoi, se vuoi,/qualunque cosa tu vorrai l'accetterò./Cos'e' l'età…” (da “Cos’è l’età”).
L’età, il tempo, la memoria. Passaggi che rendono la vita
nel tutto, e graffiati nella danza della noia che è testamento di un invito
all’oblio. Ma dove è lo sguardo dell’incontro e della separazione tra Luigi
Tenco e Franco Califano?
In Tenco c’è sempre la misura di una malinconia che diventa
disperante e lucido raccordo con l’abbandono e con l’esasperante addio.
In Califano la malinconia come misura della noia tocca le
corde dell’ironia tanto da fargli
cantare “Io nun piango…”. Un testo di una incisiva forma lirica ma anche
esistenziale che diventa poesia della conquista del tempo dell’essere: “Io
piango, quanno casco nello sguardo/de' 'n cane vagabondo perché,/ce somijamo in
modo assurdo,/semo due soli al monno” (da “Io nun piango”).
La lingua è linguaggio di esistenze e le esistenze sono
intrecci di solitudini. Ma Franco Califano attraversa, anzi ha la capacità di
trapassare, le viole della vita e si ferma sul ciglio di un burrone.
Il suo sguardo non è mai rivolto verso il vuoto. Anzi. Il
suo sguardo è rivolto dove lo spazio ha la solidità e i luoghi sono una
fisicità tra la geografia della vita e la vita nella recita di una metafisica
esistenza.
E allora. I conti non si fanno con l’età di un tempo piccolo
ma con tutto ciò che questo tempo piccolo permette di essere anche quando
“L’ultimo amico va via”.
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blog culturale fondato dalla giornalista Lilli D'Amicis