di Roberto Burano
La
sanità pugliese in questo momento non gode certo di una buona salute, e tutto questo si ripercuote sulla parte debole del sistema, ossia sui malati che non hanno molto denaro da destinare alla cura della propria salute.
A questo punto mi pare molto attuale un proverbio salentino del secolo scorso, che descrive una situazione che pensavamo fosse relegata al passato, ma che sembra, paradossalmente, destinata a rivivere oggi. Io l'ho letto su di una rivista on line:
Bridge Puglia Usa diretta da
Flavia Pankiewicz, è commentato dal linguista Prof.
Alberto Sobrero dell'Università di Lecce ed arricchito anche da una china di Bruno Maggio. Buona lettura
La malattia de lu villanu dura vintiquattr’ore
A lla sira lu dottore, a lla mane lu Signore
[La malattia del contadino dura ventiquattr’ore
Alla sera il dottore, alla mattina il Signore]
di Alberto Sobrero
Bruno Maggio.
China
Un altro squarcio aperto
su un passato che conosciamo molto ma molto indirettamente: ne abbiamo letto
qualcosa, per lo più in romanzi o racconti, ma si tratta di condizioni e stili
di vita tanto lontano dai nostri che li vediamo ricoperti da una patina di
irrealtà, o quanto meno di incredulità. Neppure l’immaginazione aiuta. Certo,
anche oggi arrivano le malattie, ma abbiamo il medico della mutua, la farmacia
vicino a casa, l’ospedale: e se qualcosa non funziona protestiamo, scriviamo ai
giornali, ci scandalizziamo. Ma in passato?
Il proverbio di oggi fa
un resoconto fulminante di quello che succedeva, soprattutto nei ceti più
disgraziati. Ti ammali? Il dottore lo puoi chiamare solo se si tratta di una
malattia grave: non c’è la mutua, e per pagarlo devi – ad esempio – ammazzare
un pollo o una gallina, cioè rinunciare a una fonte primaria di reddito, se non
al tuo pranzo e alla cena. Il dottore viene dopo un giorno o due o tre (abita
lontano, le strade sono dissestate e pericolose, il calesse cammina piano, e
poi lui ha tante cose da fare…), dispone di ben pochi strumenti per la diagnosi
e di pochissimi rimedi, spesso più dannosi che utili: gli impiastri, le purghe,
i salassi. La sua dottrina si basa più sul sapere tramandato che sul sapere
clinico e terapeutico, i suoi rimedi attingono più alla farmacopea di
tradizionale popolare che alla farmaceutica scientifica. Non è neppure sicuro
che l’igiene sia impeccabile...
In queste condizioni,
senza i farmaci che oggi sappiamo necessari ma anche senza il sostegno di
un’alimentazione sufficiente (la fame è condizione molto diffusa, spesso
normale) che cosa può accadere al malato? Semplicemente, si aggrava. Ed è
presto pronto per l’estrema unzione: alla sera viene il dottore, che osserva,
ausculta, scuote il capo e alza gli occhi al cielo; il mattino dopo viene il
prete, che prega, unge, benedice e alza gli occhi al cielo. Un’altra parabola
umana si è consumata.
Il nostro proverbio
sintetizza in modo mirabile un insieme di condizioni che la storia ci descrive
con narrazioni da incubo e la demografia e la statistica fotografano con numeri
impressionanti. Oggi in Italia abbiamo una ‘speranza di vita’ di circa 80 anni
(per l’esattezza: 79,4 gli uomini, 84,5 le donne), ma se andiamo indietro nel tempo
i numeri sono ben diversi. E non è necessario retrocedere di molto: la
‘speranza di vita’ cinquant’anni fa era di 65 anni, ottant’anni fa di 55, nel
1900 era addirittura di 43. Per non parlare del secolo precedente: chi nasceva
nel 1880 aveva una speranza di vita di 35 anni. Più o meno come nell’antica
Roma.
La media, sino a pochi
decenni fa, era drasticamente abbassata dalle guerre, dalla fame, dalle
epidemie, dalle carestie e dalle malattie. Fame, carestie ed epidemie a loro
volta erano strettamente correlate, perché la carestia generava fame e la fame
indeboliva il fisico rendendolo più vulnerabile; le epidemie trovavano così
facile diffusione in popolazioni in gran parte debilitate, e per giunta ignare
di ogni misura profilattica.
Le classi sociali
inferiori erano naturalmente più esposte delle altre al rischio di ammalarsi e
di morire in giovane età, perché vivevano in condizioni spesso estreme. Nel
Seicento si calcola che nella borghesia morisse il 20% dei neonati e nel
proletariato quasi il 4%, e che le percentuali salissero rispettivamente al 38%
e al 62% nei primi dieci anni di vita. Se pensiamo a un proletariato rurale,
poniamo, del Seicento o del Settecento – si ritiene che questi siano i secoli
in cui si ‘ambienta’ la maggior parte dei nostri proverbi – dobbiamo dunque
ritenere che ammalarsi gravemente e morire, a qualunque età, fosse
un’esperienza tutt’altro che eccezionale: naturale che il ‘villano’ passasse
rapidamente dalle mani del dottore a quelle del prete, dalla medicina
all’estrema unzione.
A ben guardare, dunque,
il nostro proverbio rappresenta una tragedia umana in due atti, con due versi
rimati e ritmati che hanno per protagonisti i temi fondamentali dell’esistenza
umana dell’epoca: la precarietà della vita (la malattia), l’inferiorità
della condizione sociale (lu villanu), la fugacità del tempo (vintiquattr’ure),
il superfluo e il caduco della vita terrena (lu duttore), l’ineluttabile
dell’Eterno (lu Signore).
Una sintesi fulminante.
Un capitolo di storia in due versi.
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