Si è cercato nel corso degli anni di sintetizzare il
pensiero di Eraclito nel celebre aforisma: , πάντα ῥεῖ
ὡς ποταμός ovvero tutto scorre come un fiume.
Perchè lo dico? Di certo non perchè credo di aver scoperto qualcosa di ignoto
ai più, anzi. Lo dico perchè penso che oggi, in un certo senso, tutto scorra.
Ma non nel senso inteso da Eraclito, il divenire, la continua trasformazione
delle cose. Nel senso che tutto ci scorre addosso, in un unico senso: quello
dell’indifferenza usata come scudo egoistico davanti al declino costante che
attanaglia tutto.Non siamo più capaci di provare rabbia, indignazione, sdegno,
davanti a cose che in nessuna persona sana e cosciente posso provocare cose
diverse dalle su citate reazioni. E non succede solo una cosa di questo tipo,
nè solo due, nè tre, nè dieci. Ne succedono a migliaia.
Non abbiamo neanche il
tempo di accorgerci di una di queste cose che ne succedono altre. E allora è
come se la mente, per preservare un minimo di equilibrio, si convinca che
finchè ci sarà un angolino tranquillo dove trovare riparo, in fin dei conti
tutto andrà bene. Comodo sulla breve distanza, ma sulle lunghe, non sarebbe più
proficuo dare sfogo insieme, in modo costruttivo, a tutta la rabbia e
l’indignazione, che sono gli unici carburanti in grado di alimentare il
cambiamento? Diceva Eraclito, più di duemila anni fa, che non ci si bagna mai
due volte nella stessa acqua di un fiume. Dicevano i Greci sempre più di duemila
anni fa che l’ "adunaton", l’impossibile per eccellenza, è che ciò
che è avvenuto possa non essere avvenuto. Ogni nostro istante non è mai uguale
all’altro e noi non siamo mai gli stessi da un istante all’altro, da un tempo
all’altro. Tutto cambia dentro e fuori di noi anche se non sempre riusciamo a
percepire questo continuo cambiamento. La cosa più appariscente di noi, il
nostro corpo, da un istante all’altro è sempre diverso e noi viviamo in questa
continua diversità e di questa continua diversità. In noi nasce e muore
qualcosa in ogni momento della nostra esistenza ed in ogni momento noi non
siamo più quello che eravamo un momento prima, il nostro corpo è cambiato, la
nostra mente è cambiata, il nostro pensiero è un altro pensiero che lo si
voglia o no. Perdiamo cellule del nostro corpo perdiamo neuroni del nostro
cervello che non torneranno mai più, perdiamo ricordi sommersi da altri
continuamente sorgenti che si sovrappongono pronti anch’essi a sparire nel
nulla, nel vuoto della nostra memoria e gli stessi che crediamo di conservare
sono diversi da un momento all’altro. Per quanto grande sia quello che noi
chiamiamo memoria, essa non è mai capace di trattenere fermare per un attimo il
nostro continuo divenire. Tutti gli eventi sono continuamente mutevoli come il
paesaggio che ci corre via veloce da un finestrino di un treno e del quale ben
poco riusciamo a trattenere. Un po’ di anni fa ne ebbi questa precisa
sensazione in un particolare momento. Mi trovavo un giorno nell’isola di Giava
sulla costa sud orientale ed era verso il tramonto. Avevo lasciato la via
asfaltata e mi ero addentrato a piedi in un sentiero appena segnato in una
fitta vegetazione equatoriale per cercare le rive di un fiume che non doveva
essere molto distante. Non c’era nessun motivo per farlo se non la curiosità di
vedere qualcosa che supponevo ci fosse, qualcosa che era semplicemente un
fiume, un fiume come un altro, come tanti altri fiumi. Ma volevo vedere proprio
quello.
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Dopo un tortuoso percorso del sentiero in un mondo di ombre sempre più
fitto, nel silenzio profondo che spesso precede il calare del sole, arrivai
improvvisamente sulla riva fra la fitta vegetazione, uscendo nella luce. Non
c’era neppure la sponda del fiume perché le piante sorgevano dall’acqua
nascondendola completamente e dovetti attaccarmi ad un piccolo albero per non
scivolare. La corrente era veloce, molto veloce e l’acqua di color grigio cupo
come il cielo che si rispecchiava, si frangeva in superficie in un infinità di
sottili rivoli che intrecciandosi fra loro, componendosi e ricomponendosi in
mille modi, creavano una serie di disegni in continua mutazione che l’occhio
percepiva ed immediatamente perdeva senza possibilità di fermarne uno, di
individuarlo e ricordarlo. Un silenzio assoluto, Il moto stesso dell’acqua non
produceva neppure un leggero fruscio. Gli uccelli che fino a pochi istanti
prima mi avevano accompagnato con il loro canto ora tacevano. Non so quanto
tempo sono rimasto là, forse un secondo o forse un’ora. In quegli istanti
guardavo l’immobilità del moto e questa espressione contraddittoria solo in
apparenza, mi ha accompagnato poi per tutti gli anni seguenti e l’immagine più
?vera? dell’immobilità del moto che non oso chiamare eterno perché ancora non
ho compreso il significato di questa parola. Ma mentre, attaccato al mio
albero, quasi sospeso sull’acqua che fuggiva via dai miei sensi verso una
dimensione irraggiungibile, improvvisamente alle mie spalle il ?tempo? irruppe
con la violenza della sua inesorabilità, con il suo ?verbo?, con il suo suono,
riempiendo anche gli angoli più nascosti della boscaglia ma anche le mie fibre
più interne. Il suono di una enorme campana invisibile era esploso improvviso e
le vibrazioni si propagavano attorno e si prolungavano verso un tempo ed uno
spazio inesauribile ed indefinibile senza direzione. Non sapevo che era una
campana, una enorme campana di bronzo che avrei trovato di lì a poco sulla via
del ritorno e che percossa con una grossa mazza di legno emanava quel suono
basso e profondo che vibrava a lungo nella foresta. Lungo il sentiero del
ritorno c’era una tettoia nascosta nel folto della vegetazione, costruita con
grossi tronchi che sorreggevano la grande campana e ne sopportavano il peso.
Era lì da gran tempo e chi passava poteva far risuonare il suo richiamo.
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Provai
anch’io ed ascoltai il suono che si diffondeva ed espandeva, sommergendo come
una ondata tutto attorno e provai ad immaginare verso chi quel mio messaggio
fosse diretto nel e fuori del tempo.
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blog culturale fondato dalla giornalista Lilli D'Amicis