di Pierfranco Bruni
È come se il tempo non avesse ricordi. La memoria ha lunghe pagine che restano come vento nell’anima. I ricordi sono “particolari” e insidiano bussando quotidianamente alle porte della mente. Ma non c’è tempo per i ricordi. Fuggono nel momento stesso in cui vengono ad essere percepiti, e l’asciano non l’assenza di un qualcosa che si è avuto. Lasciano il vuoto.
C’è una traversata di maree tra l’assenza e il vuoto.
Cammino sul margine del fiume e le memorie sono insistenti. È come se avessi chiuso tutto in un pugno di una sola mano. Gli anni come le nuvole. Sono come le nuvole. Vanno, vengono, si fermano e poi lasciano nello sguardo la nebbia.
Ogni mia parola non va più confusa con la speranza di dire una parola altra. Io ormai porto le parole negli occhi. Tutto mi sembra oltre e ogni attimo mi sembra che sia stato già vissuto. Sono troppo impastato di Cesare Pavese.
La mia vita è stata sempre un intrecciare il quotidiano con il linguaggio del pensiero e ogni attimo non conosce mai il “relativo”. Le nuvole di Aristofane, ripetermi mi devia i percorsi della nostalgia in una implacabile malinconia, sono quelle che osservo da una stanza sul mare e che ho ritrovato nel canto di Fabrizio De André. Non c’è tristezza nel mio dire.
Una volta uno sciamano che custodiva la palma e i colori della sua terra mi disse: “Hai perso il tuo sorriso. Non sorridi più. Porti negli occhi il silenzio di un’ironia stanca. Supera questa tua malinconia non soltanto con il silenzio, ma con il comprendere il valore della pazienza. Sulle tue labbra e nel tuo sguardo non c’è il sorriso che conoscevo. Non ti chiedo perché. Ti chiedo soltanto di prendere consapevolezza di ciò”.
Poi lo sciamano è partito e mi ha lasciato non il vuoto ma l’assenza. Io continuo a cercarlo e forse anche ad imitare i suoi gesti e a raccogliere sia i suoi silenzi sia la sua pazienza. Lungo le strade del fiume ci sono quelle che portano al deserto e se non smetto di scavare nei miei Orienti è perché tento di scoprire perché l’alba nasce dove muore il tramonto. Non sono ancora riusciti ad afferrare questo mistero.
Il giorno in cui lo sciamano è partito non è mutata la mia vita. Il ribelle del tempo che non ha ricordi è diventato semplicemente un uomo in rivolta.
Le pagine di Albert Camus hanno sostituito quelle Proust. E il mio conflitto con la “Commedia” di Dante è diventato non più irruente ma paziente. Non ho mai sopportato Dante e credo avremmo dovuto non tollerare la sua “Commedia”. Ma dobbiamo tollerare sino al punto di non essere tollerati? Dopo lo splendore della “Vita nuova” dopo le “Rime” straordinarie si è smarrito tra i labirinti degli odi e delle vendette impaginando la poesia dentro la teologia. Terribile!
Devio i percorsi del mio non essere relativo o relativista? Le nostre vite non sono un’unica vita, e anche se ci sforziamo di viverla con coerenza, è la vita stessa che ci sceglie e ci indirizza verso vie nuove o antiche. Le mie scelte le ho annunciate in un tempo antico. Come chi crede nella “Rivolta” ha bisogno di poter guardare oltre la finestra sul mare e immaginarsi un orizzonte oltre l’orizzonte che appena riesce a leggere.
Forse, alla fine, Omero ha avuto il coraggio di inventarsi un ritorno per tutti noi. Io credo, l’ho scritto in un mio romanzo, che sia stato proprio Ulisse a fotterci con il suo voler ritornare ad Itaca. Ma abbiamo veramente ancora bisogno di un’Itaca?
Penso spesso all’orizzonte ma ancora mi ritrovo a contemplare il cerchio. La verità non è posseduta dalle religioni. Quando capiremo che Cristo non è religione il nostro ritornare ad Itaca avrà un altro senso.
Ora cade una pioggia sottile. I miei viaggi lasciano i labirinti della solitudine e diventano pianura, la pianura del deserto che si abbandona al vento e il vento forma delle dune. Non ho mai accettato di essere giudicato. Non si tratta di intolleranza. Ma di essere rispettato nei miei deserti, nel mio silenzio, nelle mie scelte.
Ormai sono giunto sul limitare del confine che diventa frontiera. Non smetto di leggere Pavese, Prévert, Lorca, Brasillach, D’Annunzio, Cavalcanti, Dante in “Rime” e di ascoltare le danze dei sufi accanto a De André e a Franco Califano.
Ho scritto anche un libro su Califano. La sua malinconia è il racconto non del vuoto, ma di un’assenza e il suo raccontare la fragilità dell’amore non è una debolezza. È piuttosto un riportarci alle metafore degli amori che vivono di forza ma anche di dissolvenze. Basta un dettaglio per tagliare il filo tra la forza e la dissolvenza. Scrivere con la punta di una matita sui battiti del cuore è avere il coraggio di guardare l’amore negli occhi.
Mi convinco sempre più che non siamo noi ad vere bisogno del tempo. È il tempo che ha bisogno di noi. Noi, invece, siamo intercettati dall’assurdo. Ritornano Camus, Ionesco e Pirandello. Ma perché mai si indica l’umorismo di Pirandello come arte, o pensiero, centrale? L’umorismo è la maschera del tragico e noi siamo dei clown sulla corda di un teatro inesistente, perché tutto è un circo nei luoghi della nostra anima.
Dove si arriverà? Dove si arriverà quando in ogni alba si parte? Si parte per dove? Lascio sulla scrivania del corridoio Leopardi e mi lascio attraversare dai versi di Cavalcanti: “e se non fosse che ‘l morir m’è gioco,/fare’ ne di pietà pianger Amore”.
Mi fermo. Mi ascolto. Guardo gli occhi dei miei figli cercando di penetrare gli orizzonti e il loro vivere il senso degli orizzonti. Vorrei vederli sempre sorridere. Il sorriso è bellezza e la bellezza senza il sorriso non ha senso.
Perché non credo nelle religioni? Perché credo in Cristo. Perché lo vivo con il mistero, perché è mistero. Chiedo, semplicemente, che ogni verità pensata tale si faccia dubbio e che ogni certezza abbia il silenzio dell’amore.
Lo sciamano, stringendo la mia mano, un giorno mi chiese: “Come si fa a mettere in ordine tutte le contraddizioni di una vita? Cosa è più necessario: l’ordine, il disordine o le contraddizioni? La certezza o la verità?”.
E così interrompo il mio camminare tra i sentieri. Resterò nel sottoscala dei tuoi occhi, mia diletta, mi fa dire Franco Califano, non per guardare cosa si nasconde, ma per cercare di custodire il tempo che ci è stato offerto.
Sfoglio le pagine delle assenze. Siamo un po’ stranieri in queste “cadute”, forse un po’ “demoni” che non accettano il “castigo” anche se, alla fine, tutto il resto è noia e ciò che rimane è l’immaginario di Calderon che è spazio nel sogno. Ma perché mai dovremmo ritornare ad Itaca?
Lo sciamano mi guarda. Ascolta il mio silenzio. Non parla. Lentamente si incammina. Conosce il mio amore nascosto tra le pieghe dei miei sguardi. Dalla stanza sul mare le onde lottano con le ore che racchiudono tutto il tempo possibile vissuto e rimasto appeso su una goccia di pioggia…
Una pioggia sottile… Ci sono Orienti che hanno segreti e i loro profumi sono vento di terra e di mare. Io racconto di amori persi tra le vie delle mie rivolte… Un’aquila in volo taglia ogni mio pensiero… L’eco di una musica ma soprattutto la voce di Franco Califano mi recita:
“Non ti cerco...
so che non ci saresti
e non voglio non trovarti...
(…)
I pensieri scorrono allegri nella mia mente
creano le tinte forti delle immagini...
e rendono accettabile ogni lontananza...
Penso a noi due...
ad un'effusione ambigua, maledetta...
e così perversamente tenera
da puntellarmi il cuore come una matita…”.
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blog culturale fondato dalla giornalista Lilli D'Amicis