Lo scrittore tra Dio come tormento e le sentinelle
dell’Assoluto.
Io Neria Francesco e padre Castelli
di Pierfranco Bruni
Ho
voluto bene, in silenzio, a padre Ferdinando Castelli. Nato nella mia stessa
terra. In Calabria. A San Pietro di Carida, nella antica provincia di Reggio
Calabria. Nel 1920. L’anno in cui è nato mio padre. Tanto ho imparato dal suo
“ragionare” di letteratura. Di letteratura nell’inquieto vivere.
Tanto
se ne parlava, in anni non lontani, insieme ad un maestro di letteratura che ha
legato, in fondo, i nostri pensieri, ovvero Francesco Grisi. Francesco a lui
deve quel titolo inquieto, ma straordinariamente papiniano, che è “Scrittori
cristiani, volenti o nolenti”. Ci trovammo insieme a presentarlo in una serata
romana, in un intreccio di discussioni sul nostro Giovanni Papini che
dall’inferno dell’uomo finito ha viaggiato sino alla confessione della vita di
Cristo.
Padre
Castelli. Poi. L’ho trovato, ritrovato, tra le parole dei miei camminamenti
negli incontri anche con Neria De
Giovanni, che è stata l’ultimo critico letterario a discutere e a presentare il
recentissimo suo libro edito da Libreria Editrice Vaticana dal titolo “Meditare
il Natale. Letteratura e Spiritualità”. Il libro presentato il 13 dicembre, nei
“Venerdì di Propaganda” a Roma, proprio
mentre padre Castelli si spegneva.
Ho
parlato con Neria di questa presentazione. Il filo sottile di una religiosità
che fa intrecciare gli spiriti inquieti e terribili. Ho molto pensato a questo
nostro viaggiare tra la letteratura che è diventata vita, con la testimonianza
di un cristiano come Carlo Bo, molto amico di padre Castelli, al quale dedica
un libro nel 1996, e altro mio suggeritore di letteratura, in parole dette, non
pronunciate, ascoltate tra Grisi, Neria De Giovanni e il mio incompiuto cammino
verso la cristianità al quale padre Castelli dava un senso.
Questo
immenso mondo gesuita che ha saputo leggere il destino e la tragedia di Cesare
Pavese, argomento più volte affrontato con padre Castelli, ha intrecciato il
superamento del tragico nella ferità della Croce. Ma tra Grisi, padre Castelli
e me c’è stato sempre di mezzo Giovanni Papini. Cercare nello scavo di ogni
uomo la pietà e la contemplazione.
La
letteratura può avere un senso soltanto se la si vive. Può avere un senso se il
legame tra la parola e i giorni assume la dimensione di quel teatro del mondo,
Calderon de la Barca, che ci “costringe” ad abitarlo (Maria Zambrano) sino in
fondo tra le “cadute” e il superamento di sentirsi uno “straniero” (Camus). Forse anche dentro questa
visione padre Castelli cercava, in quegli anni folli papiniani insieme a Grisi
nella Roma devastata e devastante e dei miei amori proibiliti, di farmi capire
l’orizzonte dell’uomo in rivolta (Camus), che ha sempre attraversato la mia
anima.
Non
ho mai smesso, da cristiano incompiuto sulla via del sogno e dell’alchimia, di
considerare quel Dio come tormento. È anche il titolo di un libro del 2010 di
padre Castelli: “Dio come tormento. Da Dante a Borges, scrittori di fronte
al Mistero”.
Neppure
ho smesso di cercare gli orizzonti dell’ignoto che cavalcano i sentieri
dell’assurdo che hanno senso nella mia vita come nella vita di molti scrittori
che segnano il filo dell’inquieto religioso. E su questo padre Castelli ha
segnato una delle testimonianze più toccanti: “Se ci fosse un Dio. Scrittori
alla ricerca del senso della vita”, (2008).
La
domanda che padre Castelli ha posto agli scrittori ma alla letteratura ha
questo suono: "Non tutti ci offriranno risposte convincenti, ma tutti ci
diranno che forzare le porte del mistero per essere illuminati sul senso della
vita non è opera da folli, ma da pellegrini saggi e coraggiosi".
È
certo che gli scrittori che provengono dalla scuola de “Il Frontespizio”
(rivista imponente degli anni Trenta) hanno come riferimento il San Francesco
che ha l’umiltà nella carità e quel Jacopone che per troppo amore capì il
troppo umano.
Certo
che sì che nella letteratura
dell’inquieto la figura di Ignazio di Layola è definente ma, in padre Castelli,
l’autobiografia o biografia vera per uno
scrittore diventa determinante perché è nella vita che si custodiscono le
“sentinelle dell’assoluto”.
Mi
mancherà, padre Castelli. Forse uno degli ultimi approdi ad una comprensione
“non razionale” della letteratura mi è stata suggerita nel momento in cui si
parlò di Giovanni Boccaccio. Il suo saggio sull’opera di Boccaccio uscì quasi
in contemporanea con il mio saggio (scritto insieme a Marilena Cavallo) e la
lettura che propose (cfr. “Civiltà Cattolica” II 3 – 104) è dentro l’uomo
dell’inquieto. L’uomo in rivolta, tra le pagine della vita e della scrittura,
ha dell’inquieto. Mai dell’immorale.
Padre
Castelli offrì una interpretazione in cui le “istanze religiose” sono in un
Boccaccio letto oltre il moralismo, e soprattutto oltre l’accademia scolastica,
ed io catturai, in volo, lo splendore degli occhi di Fiammetta per renderla
protagonista inquieta nella coscienza inquieta di Boccaccio. Ma, questi, sono soltanto
dei dettagli che mi hanno legato a padre Castelli.
L’inquietudine
non è nell’uomo che vive il contemporaneo. L’inquietudine è nel suo veleggiare
tra i porti e gli approdi non raggiunti, ma volutamente mancati.
“L'uomo,
fra tutti gli esseri che sono in terra, è il solo che si sforzi d'imitare il
suo padre antico, che tenti di tornare, nei suoi più vivi ed alti momenti, allo
stato del sole o almeno di assomigliarsi a lui”. È di Giovanni Papini questa
cesellatura.
Cosa
ci resta dopo il viaggiare tra le rive dell’uomo finito? Nel mio incompiuto
essere cristiano c’è sempre il dio del Sole. Un argomentare rimasto a metà tra
me e padre Castelli proprio nel momento in cui i segreti diventano Mistero.
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