Personaggio "scomodo" come pochi altri, Pietro
Aretino,“ardito di penna e di gola”, è stato
condannato, appena morto (1556), a una vera “damnatio memoriae”, che,
protraendosi nei secoli fino a oggi, lo ha marchiato come il pornografo,
l’autore osceno privo di effettive qualità artistiche. Soltanto da una ventina
d’anni a questa parte è in atto un’inversione di tendenza, che, superando ogni
remora moralistica e ogni ipocrisia, recuperi innanzitutto gli scritti
aretiniani nella veste piú affidabile e
riformuli poi in base ad essi un giudizio piú equilibrato e criticamente
fondato. L’intera attività dell’Aretino viene attentamente vagliata: dalla
produzione giovanile a quella pasquinesca, dagli scritti religiosi a quelli
erotici e teatrali, dalla fondamentale "invenzione" del genere
epistolare alla poesia cavalleresca, fino ai rapporti con la società del tempo
e alla "ricezione" dell’Aretino nei secoli successivi.
Ne emerge un
quadro di grande interesse e un profilo dell’autore dalle linee fortemente
rinnovate, che si propone come punto di partenza per una ridefinizione generale
dell’opera e della figura aretiniane nella nostra letteratura.Pietro Aretino fu uno dei maggiori artisti che nel XVI
secolo aiutarono a superare definitivamente la visione etica e teologica di
questo periodo.Non si conoscono i suoi genitori,in quanto egli non volle
riconoscerli in età adulta,ma si suppone che fosse nato da una relazione fra un
calzolaio di nome Luca e una cortigiana, Margherita dei Bonci,detta Tita,che si
diceva fosse “molto scolpita e dipinta da parecchi artisti”
(inteso nel senso meno artistico possibile),il che ci da un'idea sulla ragione
della scrittura con toni molto bassi dell'Aretino.Con la sua scrittura egli fu
sia amato che odiato dai critici dell’epoca.Nato di bassa lega, in una società
in cui soltanto i “potenti” valevano (fossero essi principi, regnanti, alti
prelati o artisti di genio); subito irretito dall’astio del proprio stato e
dalla volontà di progredire e di primeggiare puntando su innegabili “qualità”
naturali (che via via si affinavano, rodandosi, nei contrasti della vita e
nella rapida ascesa al potere), l’autore di quest’opera “incriminata”, relegata
frettolosamente fra le cose turpi della nostra letteratura, è tal personaggio
che meriterebbe una considerazione maggiore e un esame più attento di quelli
che fino a pochi anni fa gli erano riservati. Oggi si può almeno discutere
senza scandalo dell’Aretino come di una figura rappresentativa, tipica e anche
importante; come di un “grosso” scrittore, a cui per essere grande, davvero
grande, mancarono una più riposata attenzione allo svolgersi ed emanciparsi del
proprio lavoro e meno interessati pretesti per esibirsi in pubblico,
disdegnando misura e studio (“ho partorito ogni opera quasi in un dì”; “né di
mio si vede mai lettera che passasse un foglio”). Temuto dai “grandi” per la
temerarietà e impudenza di divulgatore geniale e perfido, li sferza ma li
ammira; si lascia corrompere sollecitando la loro debolezza, accarezzando con
arte l’ambiguità della loro natura, corrotta e presuntuosa, debole ma
arrogante; eppure conserva un misto di timidezza risentita, un residuo di
cautela spigolosa e sospettosa (che magari, alle volte, e proprio per questo,
lo rende anche più efficace nell’attacco, più duro o addirittura feroce nel
giudizio); perciò è più arrogante e grezzo nell’invettiva – anche se
immediatamente riesce a risultati di maggior effetto – e più sottile e fine,
più brillante e spregiudicato quando adula, esercitando l’arte della finzione
(“adulazione e finzione son la pincia di grandi”, cioè il regalo più amabile,
una specie di miele) o la propria “temeraria importunità”. E’ ben consapevole
della posizione di prestigio e di preminenza pubblica che si è assicurata con
la penna; ne valuta fino in fondo il valore “commerciale” (“chi tralascia me
insegna a me di tralasciar lui… Dìcamisi per che conto debba cantar un poeta
non volendo altri sonare? Chi è quel capitano sì affezionato a la Francia che
voglia servirla per dominum nostrum? Date a lo dabitur vobis,
disse il pedante. Io adorava il re Francesco, ma il non aver mai argento da lo
sbragiar de le sue liberalità raffreddarìa le fornaci di Murano. Sì che V. E.
Ecc.ma o mi faccia dare del fiato per le trombe della virtù, o mi perdoni s’io
non gli grido ad alta voce il nome”); si è reso conto dell’enorme efficacia che
ha la divulgazione pubblica di un episodio o di avvenimenti intimi e scabrosi
che toccano la vita dei grandi personaggi; eppure questa penna “infernale” non
si trasforma in un ricattatore calunnioso o fantasioso; Non inventa; egli non
fa che “propalare scandali accertati”; direi che è quasi scrupoloso nel
verificare la fondatezza e il dettaglio delle notizie che vuol strumentalizzare
(“la bugia, pane quotidiano de i gran maestri, non è cibo de la mia bocca”).
Queste due intuizioni originali e in un certo senso “fondamentali”
dell’efficacia della propalazione “contrattata” dell’aneddotica storica o
privata, e della necessaria veridicità della notizia o delle serie di notizie
che si divulgano, testimoniano e confermano, al di fuori di un giudizio morale
(o moralistico), della genialità composita dell’autore, e della sua modernità
(in un certo senso); sicché alcuni lo vedono e lo videro come un precursore, o
il precursore, del giornalismo moderno.Dicono che l’Aretino morisse cadendo
all’indietro da una seggiola, per il gran ridere a una scenetta volgare che si
svolgeva nella propria casa. Può non essere vero, e non sarà vero; e che il
moralismo pubblico condannasse con questo aneddoto finale un uomo che aveva
temuto, ammirato, disprezzato, seguito e odiato. Un uomo così poco pedante in
un tempo di retori illustri. Che aveva, nonostante tutto, io credo, invidiato.
Per quella sua forza opulenta di giungere a ciò che voleva, di volgere il corso
delle vicende, di toccare la fortuna e la ricchezza e di assestarvisi sopra
senza più lasciarle; per quella sua forza vitale che coinvolgeva e provocava la
forza degli altri (“io sono il segretario del mondo”). Un uomo, un artista che,
come scrisse un gran critico, aveva la logica del male e la vanità del bene. Un
uomo tuttavia che “amando se stesso fino ad esser ebbro di sé, desiderava
piuttosto la gioia che il dolore degli altri”. Tutto cio’ che e’ stato scritto
su questo personaggio, puo’ essere riassunto nell’epigrafe ironica a lui indirizzata da Paolo Giovio: Qui
giace l’Aretin, poeta tosco,Di tutti disse mal fuorché di Cristo,scusandosi col
dir: “Non lo conosco”.
Nessun commento:
Posta un commento
blog culturale fondato dalla giornalista Lilli D'Amicis