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venerdì 10 febbraio 2017

Don Lorenzo Milani. A 50 anni dalla morte

Una sciagura per la scuola italiana. Io porto le ferite di una cultura massificata

di Pierfranco Bruni

Ci sono sempre stati degli elementi di natura pedagogica e, direi, strettamente pedagogica che ha interessato però gran parte dei processi educativi sociologici e antropologici. Interessi e aspetti che mi hanno permesso di analizzare in più occasioni don Lorenzo Milani. Una riflessione lunga, approfondita, perché più volte ho cercato di non prendere una posizione su don Lorenzo Milani e di riflettere fino in fondo, con profondità, sul suo pensiero, sui suoi scritti, sul suo essere controcorrente all’interno dei processi culturali degli anni ’60.

Ho studiato più volte la fenomenologia culturale, ma anche gli aspetti strutturali di una società che si era formata intorno agli anni ’60. Quegli anni ‘60 che hanno visto la ribellione delle generazioni, una ribellione che partiva dalla cosiddetta “uccisione dei padri”. Mao, Marcuse e Marx, tre personaggi di un materialismo storico che hanno contribuito a disarticolare i valori della tradizione e hanno permesso di uccidere la tradizione, perché quando chi sostiene che in quel contesto, in quella temperie, si volevano “uccidere i padri”, la metafora è questa: si voleva uccidere la tradizione, si è voluto uccidere l’autorevolezza del padre e, con l’uccisione della autorevolezza del padre, si è cercato di sradicare il concetto di famiglia all’interno di una società che era costruita sulla famiglia.
Un interprete di questo modello, di questa cultura, un interprete ma anche un sostenitore di questa “uccisione dei padri” è stato don Lorenzo Milani. “Lettera a una professoressa”, pubblicata nel 1967, disegna e designa proprio questo aspetto. Ma già precedentemente aveva pubblicato dei testi che avevano messo in grave difficoltà non soltanto il mondo cattolico, ecclesiastico, ma il legame tra la tradizione e la società, tra la tradizione e la famiglia. Mi riferisco al testo “Esperienze pastorali” del 1958 e “Risposta ai cappellani militari” del 1965.
Ebbene, don Lorenzo Milani muore 50 anni fa. Muore il 26 giugno del 1967. Sono passati 50 anni, trascorsi decenni, ma quella esperienza è rimasta all’interno di alcune generazioni che poi si sono abilitate in un modo di esercizio culturale alla fine degli anni ‘60, nel cosiddetto ‘68 che voleva rivoluzionare le società e il mondo, ma che è stato rivoluzionato dal conformismo dilagante, tant’è che hanno cercato di trasformare la tradizione con una pseudo rivoluzione, ma sono stati travolti dal conformismo. Oggi si può dire tranquillamente che tutti coloro che hanno fatto il ‘68 sono all’interno di un apparato che è diventato conformista. Don Milani, credo che sia stato uno dei riferimenti per questa generazione in Italia. Era nato a Firenze il 27 Maggio del 1923 da una famiglia borghese, ma la sua formazione più che altro diventa una formazione di un autore che cerca di capire, o di conoscere, i movimenti della società attraverso una caratteristica che è la caratteristica gramsciana.
Credo che nella sua scelta ci siano stati due punti di riferimento, che poi vengono presi come decisioni dalle parole di don Milani, e sia il testo “Esperienze pastorali” che “Lettera a una professoressa” non fanno altro che sostenere questi aspetti, ovvero, diceva don Milani: “La cultura vera, quella che ancora non ha posseduta nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola”.
Ecco, allora, dove sta il punto nevralgico di quella concezione di una religiosità che poneva come chiave di interpretazione il “qualunquismo”: appartenere alla massa e possedere la parola. Per quale motivo bisognerebbe appartenere alla massa? Per quale motivo bisognerebbe possedere la parola se non si ha nulla da dire? Le contrapposizioni potrebbero essere tante, ma la massificazione nel mondo della scuola, della cultura, della società nasce proprio da queste dicotomie donmilaniane.
Dicotomie che poi vengono evidenziate ancora con più forza in un altro aspetto, in un'altra sottolineatura: “Una scuola che seleziona, distrugge la cultura”. Ma la mancanza di meritocrazia che abbiamo vissuto negli anni successivi non è altro che parte integrante di questo modo di pensare, cioè la scuola non deve selezionare perché distrugge la cultura, o è tutto il contrario? Una scuola che seleziona non distrugge la cultura, questa è la contrapposizione. Ecco perché credo che la funzione che ha avuto don Milani nella scuola negli anni ‘60 sia stata una funzione abbastanza negativa, molto negativa, soprattutto quando tocca il tema della disubbidienza e questo tema era un tema cruciale in quegli anni. Io che provengo da una famiglia borghese, aristocratica, nobile, per quale motivo avrei dovuto disubbidire se la mia caratura era completamente affidata alla tradizione e a un ruolo paterno, alla autorevolezza del ruolo paterno? Mi pare che questa sia una conseguenza, poi, di un mio concepire la vita attraverso i valori, i significati, le identità, attraverso il concetto di padre e non di “stranieri”.
Tutto questo è parte integrante di un mondo che don Milani, credo, cercava di distruggere, che cercava di disubbidire e quando parlava dei vari “Pierini” non si rendeva conto, in fondo, che i vari “Pierini” possono essere anche in quelle famiglie che non amano la cultura e penso che questo sia un dato oggi da rivedere, da ricontestualizzare, da riguardare perché se ne è fatta un’icona di don Milani.
Ritengo che questo sia un fatto obbrobrioso, considerare ancora oggi don Milani come un maestro in una società come la nostra, in una temperie come la nostra. Nelle difficoltà in cui si vive sul piano culturale, dal punto di vista culturale, insistere sulla visione, sulla dimensione della disubbidienza, della massificazione dei cosiddetti “Pierini”, significa ancora una volta, e ancora  di più, non capire i confitti che la nostra società ha vissuto. In un’altra osservazione sempre in questi due libri, che sono i libri fondamentali di don Lorenzo Milani, ovvero “Esperienze pastorali” e “Lettera a una professoressa”, c’è un pensiero che ritengo dovrebbe motivare la scelta di contrapporsi a questa funzione che ha avuto don Milani nella scuola e nella società scolastica, educativa. Dice don Milani: “Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che nel vostro senso io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressi dall’altro. Gli uni sono la patria, gli altri  miei stranieri”.
Ecco, allora, da dove nasce lo sradicamento di una identità. don Milani ha puntato a sradicare l’identità nazionale per privilegiare che cosa? Non la cultura popolare in sé, ma per privilegiare un terzomondismo che in quegli anni poteva avere come termine questa dimensione, questa visione, ma oggi siamo ormai al “settimo mondo”, come interazione economica, ovvero tutti i pianeti interattivi interagiscono e approdano in terre che sono straniere.
Il non capire (on non voler capire per motivi ideologici) il valore della Patria come identità (in don Milani c’era la formazione gramsciana, comunista, c’era quella formazione che poi verrà definita cattocomunista), significherà dare il sopravvento alla “divisione” della Patria, a quella divisione della Patria che segnerà sregolatezza e sradicamento, spaesamento e leggerezza identitaria. Don Milani ama ripetere: “…io sto con gli stranieri” come per dire “non sto con l’identità nazionale”.
Vedete come è possibile dare una funzione sociale alla cultura? Una funzione sociale che ha un valore non solo ideologico, come lo ha avuto don Milani, ma lo può avere anche sul piano antropologico. Io insisto spesso sul concetto, sul vocabolo di “antropologico”, perché oggi non è pensabile poter affrontare una questione esistenziale, una questione centrale delle società moderne, come quelle antiche, senza porre l’attenzione sull’antropologia delle culture che hanno focalizzato tutta una questione che è la questione esistenziale.
Don Milani, in fondo, ha cercato di dividere questi aspetti, è stato non insclusivo, bensì escludente, perché se il figlio che nasce in una famiglia borghese, aristocratica, nobile, è da scartare, mentre il figlio massificato è da, scusate il termine, “incartare” in una società “altra”, significa creare una esclusione, una completa esclusione, e credo che tutto questo vada oggi riconsiderato non soltanto per celebrare un anniversario che non può essere celebrato con i canoni antichi o con la mitologia vecchia, ma penso che vada restituito il senso e la logica di una vera e propria dimensione storica. Spesso è stato usato il termine “I care” per edificare le scuole di Barbiana, per edificare il motto di don Lorenzo Milani. Egli dice che “Il contrario esatto del motto fascista Me ne frego è I care”.
Che cosa significa questo? Significa che mi interessa, mi interessa tutto e perché tirare in gioco nella discussione il “Me ne frego” fascista? Che senso ha avuto? Che senso ha oggi? Che senso si è cercato di dare in quegli anni? Ecco come tutta la visione scolastica, metodologica educativa in Don Milani ha assunto un funzione politica, ovvero una funzione prettamente ideologica.
Io non ho mai condiviso il ruolo di don Milani nella scuola. Io sono per la meritocrazia da qualsiasi parte possa provenire questa meritocrazia. Con la mia esperienza appartenente a questa scuola, anzi vivendo dentro questa scuola donmilaniana, sono stato punito perché la mia esperienza mi ha portato ad essere un “escluso” nella scuola di don Milani per il semplice motivo che la mia famiglia non era una famiglia massificante e massificata. Di conseguenza, ero io l’escluso e gli altri erano gli inclusi. Come si può dire che “massificare” significhi includere l’altro?
Ebbene, io ho vissuto in queste classi di don Milani, fatte con la concezione di don Milani e devo ammettere di aver vissuto anni di scuola media e superiore in un modo terribile, con dei docenti che avevano un’esperienza e una formazione donmilaniana e comunista. Quindi oggi, a distanza di decenni, non soltanto basandola sulla mia esperienza personale, ma basandola sul concetto ideologico di don Milani, credo che la scuola debba uscire fuori da questa situazione. Purtroppo ancora oggi esiste, per molti aspetti, questa visione donmilaniana, non sempre, ma in molte occasioni  è stato preso in considerazione anche il motto “I care”, ripreso poi addirittura nel corso di un’assemblea congresso dal Partito Democratico, dall’ex Partito Comunista nel tempo veltroniano.  Il legame è emblematico!
Don Milani non appartiene a tutti, non può appartenere  a tutti. Ecco perché credo che la scuola si sia trovata in grosse difficoltà. Quelle scuole che hanno adottato il metodo di don Milani, e non sono poche, si sono trovate in una profonda difficoltà, in una crisi che è stata, ed è ancora oggi, una crisi di conoscenze, di saperi, di modernità. Le antologie scolastiche che hanno adottato il metodo dell’apprendimento  “alla gramsciana”, sono quelle antologie che presentano degli errori balordi, degli errori che permettono poi di disconoscere la verità storica, la realtà storica.
Ritengo che questo anniversario di don Milani debba permettere una riflessione a tutto tondo. Io non accetto nulla di don Milani, assolutamente nulla, ma sono stato sempre pronto a confrontarmi con coloro che hanno un pensiero e un parere diverso dal mio, ma nel caso di don Lorenzo Milani è la storia che parla. E’ la verità storica che ha definito un vero e proprio percorso sia pedagogico, metodologico che antropologico. Oggi si riscopre la meritocrazia gentili ano dopo la sciagura sulla scuola dell’insegnamento cattocomunista dei professorini con la penna rossa.



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