E’ questo un piccolo tentativo di
presentare il fenomeno mafioso dal punto di vista storico, non altro.La
complessita’ di tale sistema e’ davanti agli occhi di tutti.
Cosa significa e quando nasce il
termine Mafia?
Secondo alcuni, la parola Mafia deriverebbe dal grido adottato da alcuni gruppi di ribelli durante i
vespri siciliani del 1282 a Palermo contro i Francesi, col significato esteso
di Morte alla Francia Italia Anela... Altri definiscono invece il termine con
etimologiche diverse, più o meno verificabili e realistiche. C’è chi lo fa
derivare dalla parola araba Ma-Hias (traducibile con spacconeria),
o da Mu’afak (protezione dei deboli).
Secondo altri il termine deriva
invece da una parola di origine toscana, Mafia, miseria.
Per altri,ancora. e' l’ordine risorgimentale impartito da Mazzini: “Mazzini
autorizza furti,incendi,assassinii”.
L'espressione diventa comunque di
uso corrente col il dramma di Giuseppe Rizzotto e Getano Mosca I mafiusi de
la Vicaria, scritto nel 1863. In questa opera il mafioso è il
camorrista, l’uomo d’onore che, insieme ad altri, si contrappone alle istituzione
osteggiando coraggio e superiorità.
Nell’aprile del 1865 della mafia,
o associazione malandrinesca, fa menzione un documento riservato,
firmato dal prefetto di Palermo Filippo Gualterio, e già nel 1871 la legge di
pubblica sicurezza si riferisce a... “oziosi, vagabondi, mafiosi e
sospetti in genere”.
La popolarita’ del termine era nata.
Il fenomeno mafioso, è bene dirlo,
si è caratterizzato nel tempo come un fenomeno non esclusivamente italico,
sebbene ciò è quel che la maggior parte delle persone si figura, se non altro
ad un livello simbolico, ben esistendo anche una mafia giapponese, colombiana,
russa, turca o americana...
La storia della mafia è tortuosa,
ma in molti vi vedono l’origine prima in una sorta di associazioni o comunità
(spesso di sangue) volte all’aiuto e alla solidarietà verso i deboli ed i meno
fortunati e strutturalmente legate ai latifondi.
I metodi usati per questa protezione
privata erano spesso, come del resto oggi, illegali.
La differenza tra la mafia dei
primi giorni e quella attuale si riscontra nel fatto che, tra la fine del
diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, i mafiosi usavano questi
metodi illeciti per aiutare le proprie famiglie e gli sventurati, mentre
negli anni a venire, l’abuso si è esteso attraverso attività certamente non
domestiche, arrivando a coinvolgere, in un duello a volte assai ambiguo, lo
stesso elemento statale.
Fine ultimo: denaro e potere.
Secondo altri, invece, questa
differenza con il passato è si esistente, ma non così netta.
Molti mafiosi siciliani e
italo-americani continuano a dichiarare, ad esempio, la loro ostilità alla
droga (distruttrice dei legami socio-culturali della comunità) anche quando
sono presi con le mani nel sacco del narcotraffico… “E’ evidente che nel
fenomeno esiste una continuità molto più forte”.
Per quanto riguarda il nostro
paese, la mafia siciliana è stata distinta nel tempo dalla criminalità locale
campana, detta Camorra e da quella della vicina Calabria, detta, con
terminologia recente, ‘ndrangheta. Elemento fondamentale nella
storia della mafia, volendosela figurare come un organo malato, è quello della
sua interazione con l’organismo che la ospita: questa società
sotterranea, nella sua dialettica con lo Stato, si ritrova spesso nel ruolo di
interlocutrice, piuttosto che di avversaria.
Scriveva nei primi del novecento
il questore di Palermo Ermanno Sangiorgi: “i caporioni della mafia stanno
sotto la tutela di Senatori, Deputati ed altri influenti personaggi che li
proteggono e li difendono per essere poi, alla lor volta, da essi protetti e
difesi”.
Il contesto utile da richiamare
alla mente è quello dell’ottocento pre-unitario, nel quale nasce anche il
concetto di camorra. L’abolizione del sistema feudale, decretata
nell’isola nel 1812 con modalità differenti dalla legge per il Mezzogiorno
continentale del 1906 (poi completata negli anni trenta), demolisce alcuni dei
quadri fondamentali dell’ancien régime...
E’ questo il momento in cui si avvia quel processo di democratizzazione
della violenza con cui il diritto all’uso della forza, prima nelle mani
dell’aristocrazia, si trasferisce legalmente allo Stato, rimanendo però materialmente
nelle mani dei privati, coinvolgendo sempre nuovi gruppi sociali al di là di
ogni rigida gerarchia di ordini o di classi.
Tra i membri delle élites paesane si reclutano gli
affittuari, i gabellotti, e gli amministratori delle miniere, dei
latifondi, degli orti, i quali, nel corso dell’ottocento (anche dopo l’unità
nazionale), cercano di raccogliere la successione dell’aristocrazia ex feudale
che gradualmente allenta la sua presa sulle campagne isolane, frazionando e ridistribuendo,
insieme ai propri beni, il proprio potere sociale.
Si formano, su questo humus, delle vere organizzazioni
locali, spesso legate a famiglie più importanti, ma anche ben inserite nel
fenomeno ottocentesco dell’associazionismo popolare. Quel che ne emerge è
spesso qualcosa che somiglia ad una rete di sette semi-segrete, con fini a
volta cospiratoti. Più volte, peraltro, si vedranno le varie cosche
intrecciarsi con istituzioni più o meno formalizzate, come i fasci siciliani,
le cooperative agricole o le antiche confraternite. La zona maggiormente
contaminata da questo genere di rapporti è quella della Sicilia occidentale,
con riferimenti estremi Palermo ed Agrigento.
I proprietari di latifondi e miniere (particolarmente
diffuse ed importanti quelle di zolfo), o gli stessi picconieri associati tra
loro, altro non erano che piccoli imprenditori per quali la capacità di usare
la violenza costituiva una fondamentale qualità professionale, uno strumento
del mestiere. Estremamente utile per regolamentare la concorrenza tra i partiti
che si contendevano l’esercizio delle vene minerarie.
I modelli di organizzazione mafiosa iniziano a circolare
su scala interprovinciale già sul finire degli anni settanta dell’ottocento. I
principali nuclei di irradiazione del fenomeno sono i paesi dell’Agrigentino,
pur rimanendo il punto di riferimento Palermo. E’ da qui che la nuova aristocrazia
ottocentesca domina la proprietà fondiaria della parte occidentale della
Sicilia e controlla il mercato degli affitti e degli appalti delle miniere.
Sono i primi anni dell’Italia unita, la nuova classe
dirigente unitaria, quella piemontese, nel tentativo di unificare l’economia
del paese, ebbe il grave compito di mettere assieme i tasselli di un puzzle
all’epoca in componibile. Tra i vari tasselli, quello siciliano era il più
ostico da affrontare. La struttura sociale siciliana si modificò, ma non per
unirsi ed amalgamarsi con la nuova istituzione, bensì per ri-organizzarsi in
maniera autonoma e per questo costantemente nel limbo dell’illegalità. La
logica della protezione ebbe la meglio su quella statale.
I primi attacchi al potere mafioso furono probabilmente
quelli sferrati durante il periodo fascista.
La campagna repressiva contro la mafia iniziò
intorno al 1925, dopo un viaggio del Duce in Sicilia. Lì fu inviato il prefetto
Cesare Mori, che si stabilì a Palermo il 22 di ottobre. Il suo soprannome
divenne presto quello di prefetto di ferro. Il piano di intervento
doveva essere sia repressivo che di ricostruzione sociale. L’azione del Mori fu
a suo modo brutale: vi fu un massiccio ricorso a misure poliziesche che
andarono dal confino alla confisca del patrimonio, volendo sradicare i mafiosi
dai territori da loro controllati, screditandone allo stesso tempo il prestigio
acquisito presso le varie comunità.
Dal punto di vista sociale si cercò di limare
il peso acquisito dal ceto intermedio dei gabellotti e dei campirei,
iniziando con l’affidamento dei compiti di mediazione e rappresentanza a
specifici organi burocratici. Senza alcun riguardo per il fenomeno mafioso
nella sua interezza, l'azione di Mori mirò fondamentalmente ad ottenere una
cifra cospicua di condanne da poter riportare al Duce quale prova del successo
ottenuto con l’operazione. Furono decine e decine gli uomini arrestati e spesso
condannati a seguito di processi sommari, come accadde al boss Don Vito Cascio
Ferro, incarcerato pur in totale assenza di prove. Lo Stato cercava di
riservarsi finalmente le funzioni di protezione e di regolamentazione
economica, prima perseguitando l’elemento mafioso, poi tentando di renderlo
superfluo.
Dopo il verificarsi di alcuni arresti eclatanti
di noti capimafia, a molti mafiosi non restarono che due alternative:
l’emigrazione verso gli Stati Uniti d’America (in seguito verrà approfondito
questo aspetto) o l’ingresso ufficiale nel partito fascista. Il prefetto di
ferro riconobbe però i veri limiti della sua azione qualche tempo più tardi,
quando, nominato senatore del regno per la sua iniziativa contro la
mafia, riconobbe che spesso l’accusa di mafioso veniva avanzata per compiere
vendette e colpire individui totalmente innocenti o comunque che nulla avevano
a che vedere con la stessa mafia.
Da sottolineare anche che i mezzi brutali
utilizzati dalle forze di polizia nelle tante azioni condotte per combattere il
fenomeno mafioso, portarono spesso ad un progressivo aumento della sfiducia da
parte della popolazione, della gente, nei confronti dello Stato,
gettando così nuove basi per una rinascita della mafia stessa, che dello
scontento popolare sapeva ben fare un suo punto di forza.
Durante il secondo conflitto mondiale, una
buona mano al ritorno al potere della mafia in Sicilia fu dato dagli americani.
Numerosi boss di origine italiana, incarcerati negli Stati Uniti, vennero
contattati dalla CIA e, con la promessa della libertà, impiegati per favorire
gli Alleati nel controllo dell’isola. Con loro vennero contattati pure boss locali.
Ed il fenomeno mafioso iniziò a riprendersi dalle bastonate inflitte dal Mori.
Con la caduta di Mussolini e la fine del
conflitto, la mafia, come per magia, iniziò a riapparire, anche se qualche
segno di vita lo aveva già dato prima dello sbarco alleato del luglio 1943. Fu
però dopo la fine dei combattimenti nell’isola che il perduto credito fu
ritrovato. In molti tornarono dall’america, dove nel frattempo era sorta l’Unione
Siciliana, ed in molti contribuirono alla riemersione del potere mafioso negli
anni del secondo dopoguerra.
Ha scritto Paolo Borsellino: “Politica e mafia sono due poteri che
vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono
d'accordo”.
dici il vero
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