di Micol Bruni
La virtù e la fortuna. Concetti che la scienza della politica ha recuperato sia da Machiavelli che da Francesco Guicciardini. Sono dentro i processi storici che hanno caratterizzato il quadro di una visione che ha come punto di riferimento la contrapposizione tra cultura ed ideologia. Nel cangiare dei tempi non mutano quelle identità che hanno come realtà fondante le eredità.
Se la virtù necessita per ben governare la fortuna non deve abbandonare il virtuoso. Ovvero il Principe. Ovvero il Signore che gestisce il potere. Sia Machiavelli che Guicciardini sono uomini del Rinascimento e si portano dentro, comunque, una formazione che ha un tracciato umanistico. Il loro percorso si intreccia e si separa.
Nei Ricordi di Guicciardini c’è la saggezza che deriva dall’analisi e dalla consapevolezza del “sapere” che nella Storia d’Italia si racchiude tutta la storia di un Occidente che ha la sua chiave di lettura nella latinità.
L’uomo politico di Guicciardini non si regge sull’osmosi tra azione e fortuna virtuosa perché gli uomini, nella senso generico del termine possono essere classificabili come “imprudenti o cattivi”.
L’azione politica non separabile dalla storia dei costumi, della tradizione, delle identità di un popolo e in quanto tale deve fare i conti con le religioni, ma soprattutto con una metafisica del senso dell’essere e non essere che è la morte.
In fondo è il Gucciardini del pessimismo della ragione ma si tratta sempre di un pessimismo che non si lega alla rinuncia. Piuttosto alla consapevolezza, e questa consapevolezza permette di osservare, con la “freddezza” dovuta, quella che il Principe definisce la ragione dell’esistenza.
Guicciardini riconosce alla ragione della politica una struttura che è la capacità di reggere la storia nella sua mutevolezza. Ma qui si ferma. L’azione è soltanto un principio, nonostante la sua provata esperienza di statista e di uomo che sapeva cosa fosse il governare la politica. Ma è pur vero ciò che scrive Mario Fubini soffermandosi sui Ricordi.
Introducendo il testo di Guicciardini, Fubini ebbe a scrivere: “Non è in lui la genialità di Machiavelli, che estraniato dall’azione, delinea nella figura del principe il suo pensiero e il suo ideale politico, o tenta di tracciare sulla scorta di Livio alcuni caratteri per lui essenziali della politica romana e di ogni tempo: l’ambito della sua speculazione è evidentemente tanto più ristretto e più d’una volta il soggetto di un ricordo può sembrare di interesse troppo limitato e sin personale (il modo di comportarsi coi servitori o le difficoltà che si incontrano per dar marito alle figlie), ma anche nei ricordi di questo genere quel che ci si impone è la mente dello scrittore, la sua volontà di chiarezza, la chiarificazione di ogni atto attraverso il suo ragionamento che nulla lascia in ombra e si presenta anche nei suoi ristretti confini come cosa compiuto” (Introduzione a Francesco Guicciardini, Ricordi, Bur Rizzoli, Milano 1977, p. 41).
Uno dei riferimenti consistenti è il fatto che in Machiavelli c’è soprattutto l’esperienza politica che non esclude (e non elide) quella letteraria. Il Principe è, realmente, il portato storico che attraversa la coscienza dell’umanesimo e si focalizza in quel secolo di mezzo che si apre ai rapporti politici europei del Barocco.
Il Barocco si porta come eredità non un Rinascimento, ma il Rinascimento che è rivoluzione e consapevolezza. Due termini che sono vitali in Machiavelli. Ma è anche vero che nelle visioni della vita di Machiavelli e Guicciardini si scontrano due concezioni della vita e anche del fare politica nella società.
“Il Machiavelli ha l’impazienza plebea di chi ha bisogno, il Guicciardini la pazienza aristocratica di chi bisogno non ha”, così si legge in Ettore Barelli (Francesco Guicciardini, Ricordi, op. cit., pp. 67-68).
Uno degli snodi fondamentali sta proprio in questa divisione di vivere la vita e percepire le questioni, perché in Machiavelli si va sempre oltre il “particulare”.
L’utile e il necessario sono scavi nella vita di Guicciardini. Machiavelli fa del necessario la virtù per dialogare con le civiltà e i popoli. Ma entrambi costruiscono il Rinascimento sulla base di una realtà che è quella dell’uomo.
Una realtà che diventa imprescindibile dalla storia dei popoli e “immutabile”. L’uomo, infatti, in entrambi, è “una realtà naturalisticamente immutabile”.
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