La reggia di Menelao, così fastosa da competere con le
dimore degli dei, ove si aggira una
donna dalle belle chiome, dalla veste lunga e fluente, il cui volto risplende
di una luce malinconica, simile a quella della luna quando le nubi ne velano il
fulgore. Se il sovrano riceve qualche ospite nell' alta sala rivestita d' oro e
di bronzo, la donna li raggiunge, preceduta dalle sue ancelle che recano per
lei un trono, un tappeto, un grande cesto d' argento colmo di filo ben torto
sul quale è posata una conocchia d' oro; allora, dopo aver rivolto ai
visitatori uno sguardo timoroso, siede sul trono che è stato sistemato dalle
ancelle accanto a quello di Menelao, e mentre fila distrattamente la lana
partecipa con frasi caute e forbite alla conversazione degli uomini…
Elena,
sposa di Menelao, poi di Paride, poi ancora di Menelao; Elena distruttrice di
navi, che tornando a quella reggia dai lontani lidi della Troade si è lasciata
alle spalle una città distrutta, fumante sulle sue rovine, e schiere di eroi
morti o lasciati a vagare per anni sulle vie del mare da numi corrucciati che
impedivano loro il ritorno. Così anche qui, in questa terra di Sparta di cui è
nuovamente regina, non vi è chi non la guardi con odio, e persino le ancelle
addette alla sua persona tengono verso di lei un atteggiamento arrogante,
poiché loro magari non saranno regine, ma in compenso non portano un nome
maledetto; non saranno figlie di Zeus, ma i genitori non devono rimpiangere di
averle date alla luce; non possiedono quella bellezza straordinaria, mai veduta
in donna mortale, ma sono convinte che la stessa Elena, potendo, avrebbe
rinunciato volentieri a un dono così gravido di sventura. E forse hanno
ragione, perché è proprio la bellezza, prima ancora della fama di distruttrice,
a fare di Elena una straniera, qui come a Ilio, fra gli achei come fra i
troiani. Elena conosce gli dei perché lei stessa è stata un loro strumento, o
un loro gradevole dono, secondo le parole usate una volta da Paride con ironia
involontaria.
Conosce soprattutto Afrodite, la più crudele tra le abitatrici
dell' Olimpo, la più incline a prendersi gioco dei mortali con lusinghe e
promesse illusorie. Afrodite che ama il sorriso: così la definiscono gli aedi,
e sulla natura di quel sorriso Elena potrebbe certo dire la sua, se timore e
venerazione non le sigillassero le labbra. Con un sorriso la dea la donò a
Paride strappandola alla sua casa e conducendola tra le remote mura di Ilio e
con un sorriso l' ha poi restituita a Menelao, che l' ha ripresa con sé quasi
senza batter ciglio: forse perché persuaso dalla strana favola architettata da
qualche cortigiano compiacente, secondo la quale a fuggire con il principe
troiano non era stata Elena in carne e ossa, ma soltanto un suo simulacro che
una divinità in vena di burle aveva plasmato per l' occasione con i vapori di
una nuvola. Ombra triste Ancora adesso, mentre si aggira come un' ombra triste
per la reggia di Sparta, Elena si stringe incredula nelle spalle al pensiero
che proprio lei, la cagna, la donna funesta tra tutte, possa essere causa di
quella beatitudine postuma. Il suo destino invece, a quanto dicono alcuni, sarà
più ambiguo anche dopo la morte: dovrà separarsi di nuovo dal marito legittimo
per essere compagna di Achille, del distruttore di Troia, e vivere con lui su
un' isola ammantata di cipressi, vietata ai naviganti dopo il calar del sole,
dove sorge un tempio che gli uccelli purificano quotidianamente sfiorandolo con
le ali intrise d' acqua salmastra. Eppure, per quanti sforzi faccia, non riesce
a immaginarsi su quell' isola. Se pensa a ciò che le accadrà dopo la morte non
si figura nulla se non le parole degli aedi che nei secoli canteranno la sua
gloria e la sua vergogna, il dono funesto della sua bellezza e la sventura che
esso causò a due popoli: θάνατος καὶ ἀγλαία, thanatos kai
aglaia, morte e bellezza sulla fatale piana di Troia!
Solo per questo, ne è
perfettamente consapevole, gli dei accecarono la mente a lei e a Paride
inducendoli a quella fuga rovinosa, per questo spinsero gli Achei a prendere il
mare sulle rapide navi e a raggiungere in armi la piana di Ilio: perché la loro
sorte maligna si eternasse nei versi dei poeti e anche in futuro, per le genti
a venire, vi fosse materia di canto. L'epica si impossessò di questa epopea,
trasformando i fatti reali - o almeno quelli salienti - in raffigurazioni
simboliche, secondo i precisi criteri fissati da una tradizione
plurimillenaria.In questo modo ad ogni livello di comprensione - dal meno
evoluto al più sofisticato - ciascuno avrebbe recepito esattamente quel che era
alla sua portata, ed i conoscitori del linguaggio simbolico avrebbero sempre
potuto sfrondare l'elemento celebrativo per cogliere quello sostanziale che
oggi, anche se i significati a volte rimangono oscuri, vale ancora la pena
cercare.
Scrisse Erodoto, da buon saggio e da ottimo storico qual fu:” la
bellezza vale più nella donna che la virtù, e la morte sana tutti i mali forse perché fa
tacere l’invidia”.
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blog culturale fondato dalla giornalista Lilli D'Amicis