Inoltre testimonianza della volontà di far parlare il suo cuore senza alcuna inibizione, cosa che lo accomuna ai poeti della tradizione antica, è un’analisi quantitativa delle opere da lui scritte. Egli sapeva ascoltare, meditare, parlare, solo attraverso la poesia, e questa, proprio intesa come canto, dà un “sapore antico” alla sua produzione, così come le parole “senza storia”, le prime venute, le più semplici, le più quotidiane. È proprio parlando di quotidianità che ritorna immediato il confronto con il Leopardi, con quello che molti critici hanno definito “verismo”. Saper ritrarre le tranquille opere dei servi, il ritorno del lavoratore alla sua umile casa, le siepi, le aiuole, l’artigiano, l’erbaiolo, la vecchierella, il falegname, significa rendersi conto della realtà che circonda l’uomo, rappresentandola obiettivamente, e anticipare la descrizione della capra di Saba, della gallina, della sua Trieste, della sua bambina. Così come in Saba, anche in Leopardi a questo mondo così reale corrisponde anche una scelta lessicale e sintattica, attenta, vivace e spontanea, che rende bene, come ha detto il Sapegno, l'incontro del familiare col peregrino, del semplice con l'elegante. Ma vi corrisponde anche l'architettura metrica che come l'architettura delle case del paesaggio leopardiano e sabiano, è semplice e nella sua semplicità grandiosa. Egli infatti abbandona ogni
La tecnica di Montale sotto quest'aspetto è diversa da quella di Ungaretti. Ungaretti si affida alla catena dei rapporti che l'analogia mette in moto, i suoi " ricordi" diventano " nuvole" nella "polvere della memoria", le sue stelle "tornano in alto ad ardere le favole". Montale, invece, ostinatamente, oserei dire quasi disperatamente, cerca il simbolo che la realtà assunta a testimonianza di vita gli offre. " Mia vita", dice, " e' questo secco pendio/mezzo non fine, strada aperta a sbocchi/ di rigagnoli, lento franamento". La stessa capra di Saba non è altro che un uomo dal viso semita che soffre per la sua condizione, e' lo stesso Saba. Però, in Leopardi, il paesaggio dalla realtà al simbolo universale avviene attraverso la memoria, la dimensione del ricordo con la quale si cerca di delineare un momento, una situazione, di cui poi la coscienza filosofica evidenzierà la vanità, il carattere non di esperienza umana e autobiografica ma di dolore universale. In Leopardi il momento negativo non è quello della precisione struggente del ricordo ma quello della razionalità, della consapevolezza, della caducità di tutto questo. In Montale, invece, il ricordo già rappresenta angoscia, precarietà, momento in cui " il calcolo dei dadi non torna". Infatti le crudeli , irreparabili forbici del tempo e del vivere cancellano, erodono volti, ricordi, occasioni, da qui il profondo pessimismo e la consapevolezza del " discendere, fino al vallo estremo nel buio, perso il ricordo del mattino".
Ungaretti e Montale, seguendo strade diverse, quasi opposte , sono partiti da una comune cultura e da un comune gusto, sviluppando e ampliando motivi ed anticipazioni tipicamente leopardiani. Ungaretti, attraverso un'assoluta adesione alla propria materia autobiografica, faticosamente riesce a trovare la forza per esprimere i suoi sentimenti attraverso la musica pura del cuore. Montale, invece, muovendo da un rassegnato rifiuto del dato sentimentale, tende ad una contemplazione oggettiva, in cui, come in uno specchio, si riflette e si consuma la sua disperazione. Costante nel grande poeta, e nei due poeti moderni, così come in Saba è il dolore. Il pastore del "Canto Notturno", rappresenta l'uomo di ogni tempo di fronte al mistero dell'esistenza : " (...) in quale stato che sia dentro covile o cuna, e' funesto a chi nasce il di' natale" . Egli paragona la sua vita a quella della luna, che e' destinata ad avere " corso immortale" come l'uomo e' destinato ad un "vagar breve"! Il modo in cui Leopardi interroga la luna non e' tanto diverso da quello con cui Montale interroga il suo meriggiare. In un assolato meriggio estivo, di fronte al paesaggio povero e scabro, il poeta percepisce uditivamente e visivamente il faticoso agitarsi della vita , della natura e approda ad un'amara meditazione sul significato della vita umana, paragonato ad un insensato procedere lungo un muro invalicabile. Linguaggio e realtà paesaggistica sono in Montale mezzi per estrinsecare un mondo interiore, una concezione del vivere i cui elementi sono una cupa angoscia esistenziale ed una consapevolezza di profondo " male di vivere" Diverso, sicuramente, rispetto a Leopardi, il mondo della natura: nel primo determina il dolore, il tedio, che è fatica e fastidio di vivere, nel secondo la natura viene coinvolta in questo universale dolore e ne è testimonianza. Anche gli animali sono coinvolti in questa sofferenza, nonostante che per un istante Leopardi li consideri beati per la loro inconsapevolezza.
Nel Canto Notturno il grido che il Leopardi rivolge al cielo, che rappresenta la volta di un tempio di cui però non si conosce il dio né si sa se esista un dio, è il grido ungarettiano che aspira ad un superamento della condizione dolorosa dell'uomo. Mentre la risposta al grido di Ungaretti è nella religione, quand'egli recupera la fede cristiana superando il concetto di vita come "corolla di tenebre", la risposta al grido leopardiano non viene nè verrà in questo canto. Per lui cotidie morimur, come Seneca, e se è così tota vita discendum est, e tota vita discendum est mori.
Anche il richiamo agli effetti uditivi sembra in comune: "sonavan le quiete stanze e le vie d'intorno al tuo perpetuo canto". La vita della fanciulla, spera Montale, non le renda "un suono, qual d'incrinata brocca percossa", ma sia per lei "un concerto ineffabile di sonagliere". Entrambe sono simbolo della giovinezza e delle speranze che accompagnano questa età, in entrambe i poeti cantano le gioie dell'attesa, ma mentre il Leopardi, della fase del pessimismo cosmico, vede in lei anche l'angoscia, al pensiero, già per lui attuato, della misera fine di tante speranze, Montale ripone nella giovinetta tutte le speranze che egli "della razza di chi rimane a terra" non ha visto realizzate. Il mare e la vitalità di questa incredibile creatura, che con un "crollar di spalle dirocca i fortilizi del suo domani oscuro" e s'abbatte "fra le braccia" del suo "divino amico" che "l'afferra", rappresentano una gioia fisica e spirituale di vita che aprono, nel pessimismo montaliano, il varco ad un sorriso.
Soluzione diversa dà del pessimismo Saba. Egli ha avuto, come e più di Leopardi, la condanna di dover compiere un viaggio ad inferos ma è riuscito non solo a compiere il viaggio di ritorno, cosa che in modo tutto intellettualistico e particolare è riuscito a fare anche il Leopardi, ma il suo viaggio è stato non una condanna (della natura) ma un privilegio perché egli è risalito ab inferis incontaminato e libero. L'attualità della poesia di Saba, infatti, è da riconoscersi soprattutto in questo: egli appartiene di diritto alla grande generazione europea degli interpreti della crisi dei valori del nostro secolo, così come Leopardi ha saputo interpretare la crisi di valori del secolo precedente. Ma Saba non è rimasto prigioniero; la sua poesia è "onestà", perché rispecchia nel "canto" la libertà della vita.Qual è il fine del vagar immortale della Luna, quale quello del vagar mortale del pastore, simile alla faticosa salita di un vecchio per un pendio, che si concluderà con un fatal burrone? Perché questo “eterno scolorar del sembiante”, sublime espressione che indica la corruzione, il disfacimento, il processo creazione-disgregazione, voluto dalla Natura e già oggetto d’esame nel Dialogo della Natura e di un islandese? Se già il nascere rappresenta un rischio di morte, e il compito più importante di chi ci pasce in altro non sta che nel rincuorarci della nostra venuta sulla Terra; se il piacere effettivo, unico scopo che l’uomo ricerca, è irraggiungibile e la mancanza di dolore di per sé non è piacere, ma noia, perché vivere? Il pastore, presumendo che siano solo gli esseri umani, dotati di maggior sensibilità e intelletto, a provare noia, invidia dunque il gregge, “perché giammai tedio non provi”. La “comprension del vero” porta con sé tristezza; sensibilità, intelletto e auto-coscienza noia, tedio. Ma vero è semplicemente riconoscere quanto è fragile l’essere umano: non è la scoperta di una grande legge che domina l’universo, perché “arcano è tutto, fuor che il nostro dolor” e “i destinati eventi move arcano consiglio”.
Nell’ Ultimo canto di Saffo» emerge la semplice constatazione che, se è vero che nessuno è mai vissuto felice sulla Terra, non lo potrà essere nemmeno Faone. Saffo, come ogni essere umano, è “grave e vile ospite addetta, dispregiata amante”: la Natura è una matrigna, una padrona di casa che, invitati gli ospiti, d’essi non si cura. Strumenti consolatori non devono essere “gli inganni dell’intelletto”, che fanno credere all’uomo: “al goder son fatto!”, illusioni che pungolano l’umanità a porre le basi fondanti della società su “superbe fole”, ma un altro tipo di illusioni: quelle della poetica emotiva, ingenua e corporale degli antichi, caratterizzata dall’indeterminato, dall’indefinito, dal raro, dal lontano, dall’antico, dal peregrino. L’infinito è proprio l’esempio del piacere :”tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare” dato dal superamento, per mezzo dell’intelletto, del confine spazio-temporale.
Così, in Alla luna , per quanto l’oggetto della ricordanza, e poi rimembranza, sia di per sé triste, poiché la gioventù del poeta fu tribolata, ciononostante l’atto del ricordare è piacevole, perché richiama alla mente la fanciullezza, età delle dolci illusioni. Ma tutto passa “e quasi orma non lascia”: il dì volgare succede al festivo e il canto che si ode in lontananza lentamente, ma inesorabilmente, svanisce. La gioia e la speme del sabato precedono la noia, la tristezza e “l’usato travaglio “della domenica, così come la maturità, tragico momento del rendersi conto, rompe l’estasi illusoria, ma quanto mai, per chi la vive, reale della fanciullezza. È per questo che non bisogna attendere impazientemente l’età adulta: le sorprese che ci riserverà non saranno piacevoli. Il piacere, infatti, non è mai presente: è speranza nel futuro o ricordo del passato (“frutto del passato timore, gioia vana: uscir di pena è diletto fra noi”). Il che “è quanto dire: è sempre nulla”. A siffatta concezione della conoscenza del vero non può che accompagnarsi una severa critica nei confronti del supposto progresso.
In Leopardi essa si concentra principalmente nelle Operette morali e nella Ginestra ed è compiuta per mezzo di una sferzante condanna al proprio secolo, definito come il “secol della morte” il secolo delle masse (ove l’individuo non conta più nulla, il mediocre cede il posto al pessimo e la cultura è figlia delle “gazzette”), il “secol superbo e sciocco”, che si bea di quelle che crede “magnifiche sorti e progressive”, che “libertà va cercando” rendendo schiavo il pensiero, che mostra le spalle al vero in favore di “superbe fole”, che inneggia all’antropocentrismo anziché riconoscere nella Natura un nemico comune da combattersi compattamente.
Da codesta riflessione sull’esistenza umana Giacomo Leopardi non giunge però alla conclusione che si debba rinunciare alla vita e dedicarsi completamente e solo agli studi: già il Tristano delle Operette Morali afferma che i libri sono nulla. Ed è proprio a quegli anni che risale quella che probabilmente è la poesia più intima ed autobiografica di Leopardi: Il passero solitario. In essa l’autore traccia innanzitutto una breve quanto intensa descrizione del suo trascorrer di giovinezza: “Sollazzo e riso, della novella età dolce famiglia, e te german di giovinezza amore, sospiro acerbo de’ provetti giorni, non curo, io non so come; anzi da loro quasi fuggo lontano”. Indi, sottolinea la distonia tra sé e la Natura: da una parte, il passero, solitario per natura; dall’altra, il poeta, solitario perché incapace d’esser altro. “Pentirommi, e spesso, ma sconsolato volgerommi indietro”.


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