Di Rosario Quaranta
Si è concluso il 18
maggio scorso presso l’UDEL (Università dell’Età Libera) di Grottaglie, che ha
sede presso la scuola secondaria di primo grado “D. Luigi Sturzo”, il corso
monografico di storia letteraria dedicato quest’anno interamente alla figura e
all’opera di Giuseppe Battista, poeta e letterato tra i più significativi della
letteratura barocca italiana.
“Gli incontri – comunica la Presidente prof.ssa Annamaria
Lenti - sono stati tenuti nei mesi di febbraio-maggio dal prof. Rosario
Quaranta, preside e segretario della Sezione Tarantina della Società di Storia
Patria, autore di vari studi dedicati a questo discusso periodo della
letteratura italiana (si ricordino in particolare i libri: Tolti dall’oblio.
Letterati del Seicento italiano, Tiemme 1986 (con P. Francesco Stea); e “Con gli sproni al piedi, all’ingegno e al
cuore. Studi su Francesco Fulvio Frugoni, Manni, 2009; nonché la curatela del
volume degli Atti dell’importante Convegno di Studi tenuto a Grottaglie nel IV
Centenario della nascita: Cultura e poesia tra Grottaglie e Napoli nell’Italia
barocca. Giuseppe Battista, Filo editore, 2011. Sono stati otto incontri che
hanno destato curiosità e vivo interesse nel folto numero di studenti che, con
piacevole sorpresa di tutti, hanno
seguito con grande impegno il programma predisposto dal prof. Quaranta. Momenti - aggiunge la prof.ssa Lenti - di grande
arricchimento culturale che hanno portato alla riscoperta di un personaggio e
di un letterato davvero straordinario della nostra terra, attraverso gli
argomenti seguenti: I tempi e la vita di Giuseppe Battista - le opere: gli Epigrammatum Centuriae tres - Le
Poesie Meliche - Le altre opere - La questione della patria di Quito Ennio
- Le Lettere - Modernità del pensiero e
della poesia del Battista - Rapporto di
Giuseppe Battista con Grottaglie, suo paese natale”.
Si riporta di seguito una breve scheda su questa nobile
figura del nostro territorio, redatta dallo stesso prof. Quaranta:
“Tra i tra i tanti personaggi che onorarono Grottaglie nel
Seicento spicca il nome di Giuseppe Battista, poeta e letterato che occupa a buon
diritto un posto non trascurabile non solo in ambito salentino, ma senz’altro
nazionale, avendo saputo interpretare in modo originale quel marinismo artificioso
e abbagliante, conferendogli maggior severità contenutistica ed etica.
Fama e gloria, in verità, non mancarono: raccolse 1'eredità
artistica del Marino e si impose all’attenzione dell’Italia letterata in quel
secolo XVII tanto vituperato, quanto poco e male indagato. Ma, dopo 1'esaltazione e il successo, tanto
la sua figura, quanto la sua opera seguirono la triste sorte riservata da una
critica severa e arcigna a eventi, uomini e cose di quei tempi frettolosamente liquidati
come privi di valori, corrotti, superficiali e falsi.
Nato a Grottaglie l’11 febbraio 1610, compì i primi studi
presso gli ecclesiastici del luogo e venne ascritto nel locale capitolo della Collegiata
a soli dodici anni. In verità, come egli stesso ricorda, non ebbe una
fanciullezza felice: “De’ genitori fui privo negli anni fanciulleschi, onde appena
mi è rimasto il di lor conoscimento”. Di certo non mancarono difficoltà
familiari e finanziarie; tuttavia al piccolo Giuseppe fu consentito di studiare.
Sua palestra di formazione letteraria fu pertanto il paese natale che non
difettava di uomini colti, sicuramente ecclesiastici, che lo istradarono alla poesia.
Molti anni dopo egli stesso ricorderà quell’esperienza:
Ecco di tufi
infranti il picciol chiostro
Dov’io per fabricar metri eruditi
Sparsi a note latine il primo inchiostro.
Passò
poi nel seminario tarantino e, appena sedicenne, a Napoli per completare la
formazione letteraria, filosofica e teologica presso i Gesuiti. Divenuto
sacerdote, si inserì attivamente nel mondo culturale della capitale che divenne
così la sua sede definitiva fino alla morte (1675). Tranne qualche fugace ritorno
in patria ed eccettuati gli anni trascorsi in Avellino presso il principe -
mecenate - discepolo Francesco Marino Caracciolo, preferì non discostarsi dalla
Città delle Sirene che esercitò un fascino irresistibile sul suo animo
sensibile. Cantò spesso le bellezze partenopee, non senza ricorrere a immagini iperboliche:
S’ardisce dir, la
penna mia non erra,
che se' tu della terra il Paradiso,
o non si trova il Paradiso in terra.
Ma all’esaltazione delle bellezze partenopee fa riscontro l’immancabile
richiamo del “patrio suolo”. Sappiamo che quando egli abbandonò Grottaglie
soffrì un distacco doloroso, ma la Capitale seppe appagare i suoi desideri di
gloria. Canta perciò:
Lasciai, ma con
dolor, le patrie arene,
a quell’aer ch’accolse i miei vagiti;
fermai le piante, ov’han tranquilli i liti
l’onde fortunatissime tirrene.
Qui fatica
ostinata alzommi il seggio
dell’inclita virtù su l’erto monte;
e d’immortalità chiaro orizzonte
qui nel ciel della gloria io pur vagheggio.
Si inserì così attivamente nel mondo culturale della Capitale
che diventò la sua sede definitiva.
Cooptato nella celebre Accademia degli Oziosi, guidata da
Giovan Battista Manso, cominciò a esporre ai critici il frutto delle fatiche poetiche
nel 1646 con una prima centurie di “Epigrammi” latini (successivamente
triplicati); nel 1650 apparvero le “Poesie meliche” che, ampliate in successive
edizioni in cinque parti, conobbero larga diffusione e gli assicurarono notorietà
e fama. Seguirono gli “Epicedi Eroici”(1667), forma poetica particolarissima che
il Grottagliese si vantò di aver introdotto per primo nella nostra lingua; e
poi le opere edificanti, cioè la “Vita del beato Felice Cappuccino” e il
“Giovanni Battista” (tradotta e stampata poi in tre edizioni portoghesi e
trasportata in versi spagnoli in un poema eroico); le “Giornate accademiche”
(cioè i discorsi e le risposte tenuti negli anni giovanili nell'Accademia degli
Oziosi sugli argomenti più svariati) e “Gli affetti caritativi”. La storia
biblica “Assalone”, la “Poetica ” e le “Lettere ” uscirono postume a cura del nipote
Simone Antonio Battista che ereditò i manoscritti e la biblioteca del celebre
zio; eredità preziosa che passò poi al convento grottagliese dei Paolotti prima
di disperdersi in seguito alle vicende della soppressione religiosa del 1809.

In Battista continuo
è il riferimento alla cultura latina, sentita dal poeta come connaturata al
paese natale in cui intravvedeva le vestigia dell’antica Rudia e, quindi, di
Ennio; riferimento che si traduce in consapevolezza di una unità
storico-culturale del Meridione nel segno di una comune radice romana che dal luogo-mito
del padre della letteratura latina si estende all’altro polo di attrazione:
Napoli, il Sebeto, Cuma, il Vesuvio, Pozzuoli, Posillipo...: giustamente Gino Rizzo,
l’ultimo grande studioso del Battista, parla di attrazione-diniego, perché il
poeta si dibatte e oscilla tra due sentimenti.
Da una parte egli è convinto che la Virtù ha bisogno di
luogo spazioso, e a tale scopo addirittura “commenda 1’andare fuori della patria”;
tuttavia, proprio mentre egli gusta dolcezze e glorie partenopee, è preso dal
desiderio di vedere il luogo natale:
Potuto ho qui
franger del Tempo i denti,
saputo ho qui far all’Invidia scorno,
ma sempre sono i miei desiri intenti
al patrio clima ed al natio soggiorno.
Il desiderio si avverò più di una volta. Ma, rientrato a
Grottaglie, non poté resistervi a lungo a causa dell’angustia politica ed
economica; senza contare il richiamo prepotente della capitale. Il ritorno in
patria nell'estate del 1648 fu, com'è noto, oltremodo pericoloso e difficile:
1’aggressione e la spoliazione subite nel viaggio, la malattia quasi mortale,
la rivolta cruenta da poco sedata nello stesso paese...
Su quest’ultima egli ci ha lasciato una sofferta testimonianza
nel sonetto: “Trova la patria in grandissime miserie”; e ciò a causa delle
violenze seguite al tumulto antispagnolo che in Grottaglie fu capeggiato dal
conciapelli Antonio Basile.
Racconta in proposito Pietro Palumbo: “I nobili, visto il
pericolo, si serrarono in chiesa. Si nascosero Nicolò Basta, 1'abbate Pietro Scordovillo,
Alfiere Melazzo, il sindaco Francesco Cecere, Francesco Scordovillo, Marc’Antonio
Angiulli, Giuseppe Cervo. Il tumulto cominciò in piazza per un alterco tra
alcuni del popolo e uno staffiere di monsignor Caracciolo e per due archibugiate
sparate da Diego Caraglia. Anzi fu questo il segnale della carneficina perché
il popolo, ucciso il Caraglia, assalì la
chiesa. Dalla sacrestia furono afferrati e trascinati per i
capelli lo Scordovillo e il Cecere, e là in piazza, con spade, con archibugi, con
mazze, uccisi. Dall'organo furono precipitati il Basta il Cervo e 1’Angiulli.
Invano i miseri abbracciavano 1'altare e l’arcivescovo di Taranto, padrone di
Grottaglie, gridava si perdonassero. La carneficina era decisa, e gli
assalitori, quali belve assetate, spinsero quei meschini sulla piazza e attorno
a una colonna li macellarono, ne fecero orrendo strazio. Alfiere Melazzo, i
fratelli Cesare e Antonio Scardino scamparono nascosti in una sepoltura. Al
Basta fu tagliato il capo e, messo in cima a una pertica, i più feroci, scarmigliati,
tinti di sangue ne fecero brutta mostra per le vie. Un lutto si era disteso
sulla città. Gli usci erano sprangati, nelle case s’innalzavan grida e preghiere".
Ben a ragione Battista poteva scrivere:
Patria, presso al
morir già ti vegg'io,
di ferite letali il sen piagato;
e fu de'figli tuoi braccio spietato,
ch'a i fatali martìri il varco aprio (...)
Tu, s'alle piaghe
tue giova il mio sangue,
deh, spargi il sangue mio, rendimi estinto;
volontaria cadro vittima esangue.
Gli eccessi furono tali che il ripristino dell'ordine,
imposto con violenza dal principe di Faggiano
Giulio Albertini, viene da lui salutato come una
liberazione.
Ma il ricordo della dolce
vita partenopea riprende il sopravvento e riconquista il suo animo disabituato
alle ristrettezze delle mura cittadine. S’affretta a riportarsi a Napoli,
grazie anche ai buoni uffici dell’arcivescovo Tommaso Caracciolo che riuscì a
fargli assegnare la porzione canonicale dichiarandolo persona a suo servizio.
Ma allorché il poeta passò nella corte del nipote del prelato, il principe di
Avellino Francesco Marino Caracciolo (che divenne suo mecenate e discepolo), i
capitolari grottagliesi si affrettarono a togliergli tale prebenda.
Ma chi è Battista? Egli è anzitutto – ci ricorda Gino Rizzo
- un poeta che vive e accetta il verbo di una poesia artificiosamente costruita
e di uno stile culto propri del Marinismo; ma è anche un poeta, un intellettuale
che dà un segnale, in campo nazionale, della necessità di una poetica più
impegnata; proclama cioè la necessità di superare lo sterile Marinismo puntando
all’espressione di idee e di valori peculiari del mondo stoico-cristiano, dando
ricchezza di contenuto a quello che rischiava di diventare un gioco letterario.
Il poeta grottagliese invita perciò a non accogliere acriticamente una
generalizzata e negativa etichetta marinista estesa automaticamente a tutto il
Seicento italiano. Né è un mistero che valorosi critici letterari abbiano
intravisto in alcuni versi di Leopardi, Parini o Foscolo suggestioni o
anticipazioni battistiane.
Non è difficile scoprire la semplicità e l’autenticità del
Poeta di Grottaglie attraverso le sue stesse parole:
In compagnia d’un
libro, a pie’ d’un monte
viver vogl’io solingo, e quivi in tanto
siami palagio un doglio, e doglio un fonte.
Un uomo celebrato ai suoi tempi, che preferì vivere sempre
con modestia e virtù, lontano dal clamore e dalla confusione, pago solo del
necessario e di una vita animata dallo studio, dagli affetti più cari e
dall'amore alla natura e alla propria terra dalla quale non seppe e non volle
mai staccarsi, come si può leggere in quest’ultima testimonianza:
Non so che di
dolcezza al suol natio
dalle Sfere stillaro i santi numi,
onde porlo non posso unqua in oblio.
Deh, se calcar di
quelle rupi i dumi,
Crudo Ciel, mi divieti, almen fa’ ch’io
ne goda 1'aure o ne vagheggi i fumi.
Grottaglie, che in vita non gli tributò onori, non si
dimenticò del suo Poeta. Nel 1727 i sacerdoti del Capitolo fecero realizzare un
grande quadro (ahimè, oggi scomparso) in cui egli è raffigurato in piedi,
avanti al crocifisso, accanto al tavolino su cui sono poggiati tutti i volumi
delle sue opere, in atto di mostrare le sue Poesie Meliche. Ai suoi piedi corre
un bel distico:
CVNAS CRYPTA DEDIT. SIRENVM VRBS CONTVLIT VRNAM,
QVAE DIDICERE NOVVM, ME MODVLANTE, MELOS.
Cioè: Grottaglie mi diede i natali; alla tomba mi portò la
città delle Sirene, che, col mio canto, appresero una nuova melodia.
Sullo stesso dipinto, a destra, una lunga iscrizione
compendiava egregiamente e consegnava alla memoria e alla storia le qualità
artistiche del famoso concittadino; iscrizione che così, tradotta dal latino, si
rivolgeva all’osservatore:
Se vuoi comprendere questo ritratto, osserva attentamente, o
passeggero, il nome. Questo quadro raffigura GIUSEPPE BATTISTA, il padre, cioè,
dell’umana sapienza, di cui si gloria la repubblica delle lettere, la voce
della pura loquela con la quale parlano le muse. Questa effigie, con devota
offerta che gran parte dei sacerdoti di questa chiesa ha raccolto, è stata
fatta a ricordo di così grande uomo e a sprone della studiosa gioventù,
nell'anno 1727 della cristiana redenzione. Intanto non giudicare solo dai
colori, ma guarda la forza dell’ingegno nelle erudite pitture delle sue composizioni
e vivi felice.”
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blog culturale fondato dalla giornalista Lilli D'Amicis