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Cristanziano Serricchio |
A distanza di
parole ma mai
di cuore
Un incontro per
ricordare
la sua figura e la sua opera fissato per il 22 settembre prossimo a
CAROSINO
(TA)
di Pierfranco
Bruni
E’ morto, a Manfredonia,
Cristanziano Serricchio. Il poeta del “miraggio della voce”. Il poeta
del “vento
spezzato sulla cima”. Il poeta che affidava “la noche entera el aullido
del
viento”. Il poeta di un Novecento non ancora consumato. Ha
intrecciato la sua parola a un volo di
gabbiani. I gabbiani della sua terra e del suo mare. Camminatore tra le
parole
che hanno l’eredità dei linguaggi e i linguaggi sono la testimonianza di
civiltà. Il poeta e lo scrittore. L’onirico viaggio in una poesia che ha
come
riferimento la tradizione, quella tradizione che intreccia la classicità
greca
con Petrarca e la linea rinascimentale che conduce sino a Mario
Luzi.
Era nato a Monte
Sant’Angelo nel 1922. Sul Gargano. Libri, titoli, pubblicazioni sono un
itinerario che traccia il suo percorso. Il suo primo libro risale al
1950. Poi
un lungo viaggio tra pagine di poesia e linguaggi che raccontano storie e
destini. Il Sindacato Libero Scrittori e il Centro Studi e Ricerche
“Francesco
Grisi” organizzano un ricordo per il prossimo 22 settembre a Carosino
(Taranto).
Mi impegnai con il
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, a far tradurre le sue
poesie a
Santo Domingo e a Cuba, in spagnolo, (in un testo dal titolo: “L’altra
sponda
dei sogni”, 2005) in Macedonia e Tirana, a Scutari in lingua albanese e a
discutere, in queste città, della poesia di Serricchio come una poesia
riferimento del Novecento poetico europeo e italiano.
Un poeta tra rimandi di una
“grammatica” dal verso sudamericano, ma andalusiano, con riferimenti che
portano
ad Unamuno e prima a Luis De Gongora e tra
l’ironico – melanconia dai toni sofferti e vissuti nell’esistenza
del
tempo e oltre l’ermetico scavo della parola stessa, sempre in una
dimensione
culturale in cui l’Occidente e l’Oriente trovano nella griglia simbolica
del
Mediterraneo la voce più profonda.
Il suo verso ha questa
incisività di cuore e di immagini: “Allà abajo sobre el verde brillo del
mar”,
ovvero: “Laggiù sul verde luccichio del mare”, oppure: “per più amarti
senza
l’ombra/del distacco che recide” che tralucemmo in spagnolo: “para
amarte màs
sin la sombra/de la separacion que cercena”.
Perché le due traduzioni?
Per la musicalità del verso. In Serricchio la musicalità è cantos.
Fu un appuntamento che ricamò,
soprattutto a Santo Domingo, una griglia di una poetica in cui la
tradizione
ungarettiana veniva completamente assorbita da un dialogante sguardo di
linguaggi, in cui la poesia assumeva la sua valenza onirica ma si
responsabilizzava di una antropologia dell’umanesimo che in Serricchio è
molto
forte, tanto da rimandare ad una grecità perfetta con delle penetrazioni
in quel
Poliziano tanto amato da Cristanziano.
Ma nella sua poesia c’è la
storia dell’uomo. Di quella storia che ha voci e destini, appunto, che
richiamano il Mediterraneo dell’Islam e della Croce. Ritrovo così il suo
splendido romanzo, in un contesto di letterature sommerse e divaganti,
che ha
per titolo proprio “L’Islam e la
Croce”, edito da Marsilio nel 2002. Nel romanzo, e in
altri
romanzi, come nelle prose, nel teatro, nel colloquiare con l’altro da
sé, il
poeta non cede mai al vento della storia. Perché, diceva Serricchio, è
nella
storia che la poesia si fa assoluto. Cosa è questo romanzo e cosa
lascia?
La città di Manfredonia è
colpita e invasa dai Turchi. Un saccheggio terribile. Una città di mare
per un
popolo che naviga i mari. Una bambina di otto anni di nome Giacometta
viene
fatta schiava e portata in Turchia, nel Topkapi (ovvero Porta del
Cannone, la
porta del Palazzo del Sultano) di Istabul. Diventerà la sposa del
sultano, o
meglio la favorita. Da questo rapporto nasce Osman.
Quando il bimbo ha appena
due anni, insieme alla mamma, compie un pellegrinaggio verso la Mecca. Durante il
viaggio vengono
rapiti dai Cavalieri di Malta. Giacometta ritorna all’Occidente e
rientra nelle
eredità del Cristianesimo. Il destino sembra richiamare altre figure tra
il mito
e la realtà. Già qualche secolo prima Giorgio Castriota Scanderbeg aveva
intrecciato il mondo cattolico cristiano e la formazione muslmana
trovandosi
alla fine come estremo difensore della cristianità.
Così Osman viene formato ed
educato al cattolicesimo e resterà nella storia della vita del romanzo
con il
nome di fra Domenico Ottomano. Diventa così il tramite tra la
cattolicità
cristiana e l’Oriente musulmano. Tanto che alla morte del padre Ibraim
cercherà
di diventare sultano dell’Impero d’Oriente. È stato definito l’uomo
della
mediazione. Tra le sue pagine una religiosa lezione: “L’odio, la
vendetta, la
guerra eterna tra due fedi hanno bisogno di tempo perché gli uomini
prendano
consapevolezza della loro assurdità”.
In uno dei suoi ultimi
romanzi dal titolo: “Ho viaggiato con l’apostolo Tommaso” (Edizione del
Rosone,
2009), Serricchio riprende questo suo scavare nella civiltà
dell’incontro e
sottolinea: “Il tempo non esiste. Il pensiero e la fede annullano le
distanze.
Ci unisce la vita nel mistero della luce che l’anima”.
Il poeta continua così a
recitare la vita e il tempo portandoci per mano: “tu ed io/a distanza di
parole
e di echi/ma non di cuore”, ovvero “…no de corazòn”. Mai di cuore le
distanze o
i distacchi o le lontananze. La poesia era l’uomo e l’uomo si portava
dentro non
solo il sogno dell’indefinibile ma anche le voci che permettono
all’anima di non
cedere mai all’esilio. Perché “Si spanderà ovunque la luce…/mia
gioia/infranta,
disperata dolcezza/irraggiungibile voce”.
Quella voce che canta, come si evince in “Seppina degli sciali”
(Progedit, 2010), “Quante arriva lu tramonte/arrive pure tu”. Un
presagio? Una
vita che si racconta nel destino e nel mistero
rivelante.
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blog culturale fondato dalla giornalista Lilli D'Amicis