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giovedì 27 dicembre 2012

Lettera a mio padre che non ha avuto la pazienza di aspettare Natale

di Pierfranco Bruni
Forse il tempo si misura con le onde delle rughe o forse sono i granelli di terra che scorrono tra le righe delle mani a raccontarci il sogno che abbiamo vissuto. È stato soltanto un trascorrere di vento a tagliare la frontiera del mio sguardo che non ha più incontrato il tuo.
Questo è il primo Natale che mi raccolgo in solitudine. Senza pensieri. Con l’indifferenza di tutto. Questo è il primo Natale senza di te, papà.
Te ne sei andato senza aspettarmi, aggrappato alla maglia della tua compagna di una vita. Mamma Maria. In silenzio e con la tua antica, coerente e nobile dignità.


Non vorrei parlare e neppure scrivere ed è come se una ferita nel costato  lacerasse ogni parola già scritta già detta già vissuta. Ed è come se avessi preparato il distacco lentamente pubblicando i miei due ultimi romanzi “La bicicletta di mio padre” e “Passione e morte. Claretta e Ben”.
Lo scrittore vive di profezie nella religiosa immensità del dubbio. Le certezze si affievoliscono e l’unica verità che conosco resta il dubbio. Non ho la fede dei religiosi che vivono la chiesa con la liturgia del sempre.
Ho il mistero che inseguo e mi insegue in una alchimia di segni, simboli, archetipi che non sono storia ma vivono in un intreccio leggero di  esasperante silenzio.
Ti ho accarezzato nel freddo della tua solitudine. Per una notte intera. Io e te. Soli. Tu morto ed io a vegliarti e rapirti l’assenza del pensiero.
Dove stavano i cristiani oranti a vegliarti? Io cristiano senza chiesa, o danzatore tra le onde, ma con il fuoco degli sciamani nel cuore ho cercato di spezzare il muro della ragione.
Si è rotto quel muro e ho capito non la misericordia o la pietà ma il vuoto di una chiesa distante, indifferente nel vero e altamente retorica, demagogica, senza l’anima degli orizzonti contemplanti. Il mistero è nel dubbio!
Ho capito definitivamente, con quella rottura della ragione, che il Cristo che era in te e che è in me non è il Cristo della liturgia degli altari fittizi e dei tentativi commoventi dei sacerdoti che ripetono, per tutti, la solita e miserevole predica per un conforto che non può esistere per chi resta, per chi perde un padre, per chi perde e la memoria ha i graffi del vuoto e della mancanza.
Ho capito la liturgia di una chiesa che non mi appartiene.
Mi chiederesti perché? Forse, non accetteresti neppure questo mio dire.
Mi chiederesti: perché sono così duro, perché sono senza religione, è la parola che usavi, perché continui a smarrirti, mi chiederesti.
Ti risponderei. Perché il conforto, non la consolazione, devi trovarlo nella tua anima, nel tuo sangue vero, nella pagina  della vita che vivi tutti i giorni e il mio Cristo non è quello che viene recitato dagli altari, dai sacerdoti che ripetono, ripetono cosa già dette, cosa già scritte e cercano di spiegare spiegare pagine dei vangeli come se avessero davanti un popolo gregge.
Non mi appartiene questa chiesa senza Cristo, senza il mio Cristo.
Io vivo di parole ma anche di esempi. Io vivo  nella scrittura ma anche nelle azioni che a volte intrappolano l’anima, il cuore, il corpo.
Ti dico questo, caro papà, perché tu mi hai insegnato ad avere coraggio, perché tu mi hai insegnato a non mentire, perché tu mi hai insegnato ad amare, perché tu mi hai insegnato il silenzio, perché tu mi hai insegnato a non tradire la coerenza sia nella vita sia in quei valori che porto dentro di me e sono i tuoi valori umani e politici.
La chiesa cattolica, te lo dico proprio oggi che è Natale, non mi appartiene: non mi appartiene la sua retorica. Noi siamo figli del Francesco di Paola, di Giordano Bruno, di Tommaso Campanella, di Gioachino da Fiore, di Ernesto Bonaiuti. Cristiani attraversati dal Cristo senza chiesa. Forse cristiani senza l’obbedienza della chiesa. Io sono disubbidiente ma ti sono stato accanto e, a modo mio, ho pregato. Con orgoglio.

Mentre ti scrivevo questa lettera ho ricevuto una telefonata di una persona che tu hai conosciuto bene e mi ha detto: “Il nonno ora si riposa un po’. Quanta fatica e quanti progetti. Bisogna pur riposarsi e godersi il riposo    dopo una vita spesa attimo dopo attimo nella vigilanza del vivere”.
Sapessi che piacere mi ha fatto ricevere questa telefonata. Credo che sia rimasta religiosamente irreligiosa nella chiesa ma profondamente vera nella sua spiritualità. Non ha pronunciato la parola “Condoglianze”.
Che brutta parola. Mi sa di condonare la lagnanza, ovvero il lamento. Sei morto ed io non ti ero accanto.
Sei morto dopo la liturgia di una preghiera cristiana ma con il fuoco degli antichi sciamani nell’anima.
Una volta mi hai chiesto: “Cosa fanno gli scrittori per vivere?”.
Io non ti ho risposto. Ti ho sorriso come spesso facevi tu per dare un senso e un peso alle domande.
Non ti ho risposto ma sapevi benissimo cosa facevano e fanno gli scrittori. Si inventano la vita attraverso le parole. Nell’inquieto esistere.
Negli ultimi giorni mi hai domandato più volte perdono per le ore, dicevi tu, che perdevo standoti vicino.
“Perdonami, lo so che hai tante cose da fare, da scrivere. Hai interrotto un viaggio e ti trovo qui. Questa volta, hai aggiunto, non resisterò altro tempo ma tu perdonami per tutto il fastidio che ti sto recando”.
Tu mi hai chiesto perdono.
Quanto tempo ho smarrito tra pagine vuote e incontri inutili. Mi hai insegnato però a non avere mai rimpianti e mai nostalgie. Mai paure.
Avevi scritto su una pagina di tronco di albero queste parole: “La parola d’ordine è non arrendersi mai. Mai fermarsi davanti ad un ostacolo. Si può essere creativi fino all’ultimo istante di vita”.
Non so se sono parole tue. Non indagherò. Ma questo era il tuo testamento. E tu stavi progettando la vita, nella tua lucidità e tra le alchimie che non ti hanno mai abbandonato.
Pensavi al Natale e alle candele che dovevano contornare lo spazio della palma abbattuta nel tuo e nel mio giardino. Non hai fatto in tempo. Ti è mancata la pazienza di spezzare la distanza tra il tempo e la morte ed hai accolto il viaggio con l’indefinibile gioco delle parti.
È la prima lettera che ti scrivo ora che non ci sei più. È triste pensarti come assente e per una volta aggredisco il ricordo e mi riporto alle immagini dei nostri antichi Natali quando ti facevo trovare la letterina sotto il piatto.
È passato tanto tempo e le immagini sono ingiallite.
Sono io a chiederti perdono per tutto ciò che avrei dovuto dirti.
Sono io a chiederti perdono per non aver stretto le tue mani nel momento in cui il tuo viaggio si trasformava in riposo nelle lontananze.
Non è un senso di colpa. I guerrieri non vivono mai di sensi di colpa e i combattenti, come te, comprendono l’impeccabilità dell’amore. Guerrieri o combattenti. Anche di fronte alla morte, al vuoto, alla mancanza.
Voglio affidarti un pensiero che accompagna spesso i miei passi. Mi appartiene. Ti è appartenuto.
È del mio caro Carlos Castaneda: “La differenza fondamentale tra l’uomo comune e il guerriero è che il guerriero affronta tutto come una sfida, mentre l’uomo comune prende tutto come una benedizione o una sciagura”.
Per te papà.
Nel mio primo Natale senza di te, in Cristo. Prego, a mio modo, per viverti intensamente con l’amore che ti porto. Il mistero è nel mio dubbio. Ma tu camminami accanto. 

Camminami accanto!

1 commento:

  1. Lettera stupenda, toccante, vera, piena di sentimento. Suo padre sarà felice perchè, stia pur certo, l'ha letta,lo sa. Suo padre le avrà lasciato tanto, cose materiali, valori , esempio ma lei gli rende, con questa lettera, se stesso ,uomo e bambino.
    Anch' io gli scritto una lettera, certo non bella come la sua, nell'ultima nostra notte, gli ho detto quel che non gli ho mai detto e quello che, fortunatamente, sono riuscita a dirgli l'ultimo giorno della sua vita.
    Non ci conosciamo, altrimenti mi sarebbe piaciuto condividerla con lei.
    Dico sempre ,quando qualcuno mi ringrazia per l'impegno al canile: E' mio padre che va ringraziato perchè lui mi ha fatta così. Lui é dentro di me.
    Per sempre.

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Pierpaolo Pasolini
scrittore
ammazzato nel novembre del 1975

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