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domenica 19 gennaio 2014

La cittadinanza della politica e il tradimento della tradizione nel Concilio Vaticano II:La decadenza e la modernità nel Machiavelli precursore delle civiltà della crisi


 di Pierfranco Bruni

 La cittadinanza politica dell’Italia del secondo Novecento trova nella visione di una Stato etico e nella affermazione di uno Stato estetico una chiave di interpretazione fondamentale che ha segnato la storia contemporanea.
Dopo la caduta del Fascismo, quale Stato si è cercato di costruire e su quali fondamenta sono stati eretti le concezioni di Stato, Nazione e Patria? Il dibattito non è solo istituzionale. È piuttosto politico, ma anche antropologico considerato il legame tra identità nazionale e popolo, tra civiltà ed eredità, tra radici culturali e modelli di geo-economia.

Quella storia moderna, o meglio quella concezione di uno Stato moderno, ha trovato sempre nella focalizzazione di Machiavelli un punto di riferimento. Uno Stato etico che non solo si fa interprete di una Ragione di Stato, ma si definisce nella struttura di uno Stato essenziale tra l’esercizio della morale applicata alla politica lo si legge nei significati e significanti fondanti di Machiavelli de “Il Principe”.
È il Machiavelli che sigilla il Rinascimento alla concezione di un Risorgimento incompiuto che si svilupperà, come dialettica ma soprattutto come azione militare, negli anni della Prima Guerra Mondiale.
Giovanni Gentile aveva posto accanto al Machiavelli delle contraddizioni il Campanella di uno Stato estetico puro. Nella politica dell’agire o meglio del fare, avendo la consapevolezza di una struttura di pensiero filosofico del diritto alla politica, non può posizionarsi un’idea di utopia e neppure di  idee nella tensione delle ombre, volendo chiamare nel dibattito Giordano Bruno, ma piuttosto di una estetica da offrire alla cittadinanza della politica.
Ritorna Machiavelli. Anche il Machiavelli studiato da Gentile e superato dallo stesso Gentile con la filosofia del Vico politico e dello Stato non di fatto, ma del superamento della ciclicità dell’umanesimo.
Il dibattito si è posto sull’asse di una attrazione tra filosofia e politica enucleando, nella prima fase, il rapporto tra Machiavelli e Mazzini e nella successiva estensione  non può che maturare una impostazione tra Machiavelli e Gentile. Due percorsi vitali nella storia e nella filosofia del Novecento.
Il primo costituisce il precursore di una politica tra l’azione e il progetto che si arrotola, comunque, intorno ai fatti di Sarajevo del 1914. Il secondo accompagna il destino dello Stato italiano dal Fascismo sino al conflitto tra Marx e Gramsci, che si consuma durante gli anni Sessanta del Novecento.
Machiavelli, Marx e Gentile sono tre perni costituenti della politica dentro lo Stato. In una Nazione e in mondo globalizzato Machiavelli (nella visione di Gentile) ritorna ad essere l’interprete e la sintesi di una filosofia della politica che si estende anche al pensiero cattolico.
È certo che la visione gramsciana delle “Cose” ha “costretto”, proprio negli anni Cinquanta del Novecento sino a tutti gli anni Sessanta, anche la Chiesa a darsi un nuovo registro con il tradimento della tradizione impostato con il Concilio Vaticano II. Il Vaticano II è il chiaro delitto della tradizione cristiana e culturale di una identità dell’Umanesimo.  
Non è una coincidenza che la fine del legame filosofico Machiavelli – Gentile (con tutta la sua formazione tradizionalista giobertiana e rosminiana) e il rapporto Vico – Gentile abbia creato una rapporto e una sintonia tra il gramscismo (anche se non esiste un Gramsci filosofo puro) militante, tra politica e cultura, e il Vaticano II che ha introdotto una “rivoluzione progressista ed evoluzionista” all’interno della “modernità” ecclesiastica, i cui risultati sono presenti nella società delle transizioni della modernità.
Uno dei maggiori cesellatori di queste epoche, la prima della tradizione e la seconda della decadenza, è stato Giuseppe Prezzolini che a Machiavelli ha restituito, appunto, la sua primaria cittadinanza. Ma in questa temperie non pensare ad un legame tra la caduta sostanziale dei valori cattolici, soprattutto in questa ultima stagione, e un posizionamento del progressismo gramsciano  sarebbe non comprendere la rottura tra la filosofia della politica, espressa nel ricco primo Novecento, e il banale che è il trionfo della vacuità, nel quale è caduto il tempo moderno.
Siamo ormai “nel tutto si giustifica” e “nel tutto è accettabile”. Non è possibile ciò. Dare cittadinanza ad una politica di valori significa, soprattutto, dare cittadinanza ai valori e i valori non sono soltanto espressione di una buona o cattiva politica, bensì di una sana ragione dell’essere nella centralità dell’esistere.
La divisione tra etica e politica non ha senso, come non ha senso la divisione tra processo teologico e spiritualità dei valori. Ma il processo teologico della Chiesa si esprime con una vacuità e banalità di temi che possono definirsi in una leggerezza fragile dei saperi vuoti. Non abbiamo bisogno della leggerezza e del sorriso scemante.
Abbiamo bisogno del pensiero pesante e staccare il pensiero ontologico da quello dell’essere della politica, in un tempo della implosione, significa ancora subire atti di superbia da settori corporativi.
Machiavelli resta, dunque fondamentale come resta fondamentale restituire una tradizione forte ad una Chiesa del progresso. Non esiste nel pensiero cristiano il concetto di progresso e tanto meno nei valori.
La cittadinanza non è nel recuperare soltanto il senso alla politica. Ciò potrebbe anche essere marginale. È recuperare la centralità della  tradizione nella civiltà non del consenso dell’ipocrisia, o della condivisione, ma del confronto nella libertà delle distinzioni.

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