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domenica 27 gennaio 2008

Da Taranto Sera di sabato 26 gennaio 2008


TARANTO - I tarantini più anziani lo ricorderanno sicuramente, ma le nuove generazioni del capoluogo jonico probabilmente non sanno che anche nella nostra città sorgeva un campo di concentramento, meglio conosciuto come Campo “S”, o campo di Sant’Andrea. Sorgeva sul territorio che si trova tra Taranto e Grottaglie, a partire dalla Masseria Sant’Andrea, da cui ha preso appunto il nome, e si estendeva nei piccoli campi interni, contraddistinti dalle lettere “R” (recalcitranti) e “T”. La particolarità di questo campo di concentramento, attivo sino al 13 aprile del 1946, e quindi dopo la fine del secondo conflitto mondiale, sta nel fatto che non accolse prigionieri ebrei, ma italiani e stranieri di ritorno dai campi di battaglia, che avevano combattuto sotto il regime fascista. Una sorta di Shoah al contrario.
Nel Campo “S” giunsero infatti, nei primi giorni del giugno del 1945, i prigionieri di guerra italiani, che arrivano dal campo campano di Afragola, stivati nei campi di bestiame senza avere servizi igienici né cibo per sostentarsi. Erano diverse migliaia di uomini, e furono sistemati dietro la recinzione di filo spinato nelle campagne di Grottaglie. A loro si aggiunsero pochi giorni dopo gli italiani che arrivavano dal campo di Algeri, già prostrati da diversi mesi di prigionia in Africa, e che in un primo momento erano stati animati dalla convinzione di tornare finalmente in patria, dopo otto anni di assenza, e riabbracciare le proprie famiglie e la comodità delle proprie case. Ed invece quei ragazzi tornarono sì in Italia, ma ad attenderli c’era un nuovo campo di concentramento, dove furono costretti ad aspettare la liberazione ancora per qualche mese.
I campi di prigionia tarantini, retti sin dagli ultimi mesi del 1945 dal comando alleato, accolsero circa diecimila prigionieri di guerra, costretti a vivere in tende malconce e sul terreno umido della campagna jonica. In particolare il Campo “S” era suddiviso in dieci grandi recinti denominato “Pen” (che in inglese significa “pollaio”), e circondato esternamente da una doppia recinzione di filo spinato. Tra le due reti scorreva un camminamento, dove spesso si avventuravano le famiglie tarantine di buon cuore per lanciare, al di là della recinzione, viveri ed indumenti che potessero essere di conforto a quegli uomini fortemente provati. La popolazione jonica si spese infatti molto per contrastare con la solidarietà questa assurda situazione. Ed un ruolo molto importante nell’operazione ebbe anche la chiesa locale, in particolare il vescovo dell’epoca Monsignor Ferdinando Bernardi ed il suo vicario don Guglielmo Motolese. Don Celestino Semeraro, parroco di Fragagnano, si prodigò invece perché le speranze di libertà dei prigionieri si trasformassero in realtà. Don Nebbiolo arrivò a sfidare le mitragliatrici inglesi, di presidio al campo, per avvicinarsi ai reticolati spinati, e creare un filo diretto tra i prigionieri e le loro famiglie. Insieme a questi uomini di chiesa, si distinsero per la solidarietà anche tanti cittadini comuni, gli uomini della Croce Rossa. La liberazione iniziò dal 10 aprile, quando i prigionieri, ormai stremati, ruppero le recinzioni e cominciarono l’esodo, aiutati dal disinteresse delle guardie inglesi, anche loro desiderose di tornare ormai in patria.
ANGELA TODARO

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