Il 1 novembre 1512, papa Giulio II inaugurò con una messa solenne la Cappella Sistina, divenuta simbolo del cattolicesimo per il suo ruolo centrale nell’elezione dei pontefici, oltre che gioiello artistico impareggiabile. E ancora oggi è così ammirata da attirare oltre 5 milioni di visitatori l’anno (nel 2011 sono stati 5 milioni e 80 mila), ossia una media 15-20 mila al giorno nei periodi di “alta stagione”. Ma non tutti sanno che la sua decorazione fu al centro di intrighi e gelosie tra artisti e l’incarico venne affidato a Michelangelo su consiglio di colleghi che contavano su un suo fallimento. La Cappella venne realizzata tra il 1477 e il 1480 sotto Papa Sisto IV – da cui prende il nome – come ristrutturazione della già esistente Cappella Magna. E gli affreschi furono eseguiti tra il 1481 e il 1482 da pittori del calibro di Domenico Ghirlandaio, Pietro Perugino, Cosimo Rosselli e Sandro Botticelli, mentre la volta fu opera di Pier Matteo d’Amelia. Ma già nel 1508 Giulio II fece fare delle modifiche, chiamando Michelangelo a ridipingere la volta con nove quadri che riprendono storie della Genesi, mentre ai quattro angoli della sala rappresentò le Salvazioni di Israele, nelle lunette alle sommità delle pareti gli Antenati di Cristo e, negli spazi tra le lunette cinque Sibille e sette Profeti. Non solo. Alla fine del 1533 Michelangelo fu nuovamente chiamato da Clemente VII per dipingere sulla parete dell’altare il Giudizio Universale, iniziato nel 1536 (c’era già Paolo III) e completato nel 1541. Seguendo però i racconti di Giorgio Vasari nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, si scopre che quest’opera artistica grandiosa, che di fatto consacrò Michelangelo in campo artistico, rappresentò un rischio nella sua carriera. Anzi, nelle intenzioni di Bramante, progettista della Basilica di San Pietro, avrebbe dovuto essere un vero e proprio fallimento. Narra infatti Vasari che «Bramante, amico e parente di Raffaello da Urbino, e per questo rispetto poco amico di Michelagnolo» persuase il papa a far dipingere proprio al Buonarroti la volta della Cappella. «Ed in questo modo pareva a Bramante ed altri emuli di Michelagnolo di ritrarlo dalla scoltura, ove lo vedeva perfetto, e metterlo in disperazione, pensando col farlo dipignere che dovessi fare, per non avere sperimento ne’ colori a fresco, opera men lodata, e che dovessi riuscire da meno che Raffaello (a quel tempo impegnato a dipingere La scuola di Atene nella Stanza della Segnatura, all’interno dei Palazzi Apostolici, ossia a poche centinaia di metri di distanza,)». In effetti, Michelangelo, avendo poca pratica nell’affresco, «cercò con ogni via di scaricarsi questo peso da dosso, mettendo per ciò innanzi Raffaello. Ma tanto quanto più ricusava, tanto maggior voglia ne cresceva al papa». Cosicché, si può dire, non ebbe via di scampo e dovette accettare l’incarico. Ma se il merito della scelta, seppur frutto di cattive intenzioni, va allora attribuito in buona parte al Bramante, tutto il resto è opera di Michelangelo. Tanto per cominciare l’architetto non rinunciò a mettergli i bastoni tra le ruote già a partire delle impalcature necessarie a raggiungere la volta. Riporta, infatti, sempre Vasari: «A Bramante comandò il papa che facessi, per poterla dipignere, il palco; dove lo fece impiccato tutto sopra canapi, bucando la volta: il che da Michelagnolo visto, dimandò Bramante come egli aveva a fare, finito che avea di dipignerla, a riturare i buchi; il quale disse: “E’ vi si penserà poi”; e che non si poteva fare altrimenti. Conobbe Michelagnolo, che, o Bramante in questo valeva poco, o che è gli era poco amico».
Così il Buonarroti decise di fare da sé, e si costruì da solo l’impalcatura, fissandola al muro tramite fori posti nella parte alta, accanto alle finestre. Dopodiché rimase deluso anche dagli amici pittori che aveva fatto arrivare da Firenze. Insoddisfatto dei loro lavori, ricominciò tutto da capo «e rinchiusosi nella cappella, non volse mai aprir loro, né manco a casa, dove era, da essi si lasciò vedere». Insomma, nonostante l’importanza e la vastità del lavoro, e la scomodità di dover dipingere a testa all’insù, Michelangelo decise di far tutto da solo, senza mai ammettere alcun visitatore, papa compreso, se non dopo lunga insistenza. E quando Bramante, tentò almeno di far concludere il lavoro a Raffaello, lo rimise definitivamente al suo posto rivelando a Giulio II particolari scabrosi della vita dell’architetto e, soprattutto, i difetti delle sue opere da lui realizzate a San Pietro. Difetti che venne poi chiamato a correggere. Nell’immaginario del pubblico di tutto il mondo, la Cappella è principalmente il luogo dove si elegge il papa, questo credo sia il fattore di suggestione mediatica più forte. E poi c’è il personaggio Michelangelo. Il grande pubblico non guarda nemmeno le opere dei pittori quattrocenteschi che decorano i lati della Cappella – e dire che, per esempio, ci sono tre Botticelli uno più bello dell’altro, ma anche opere di Perugino e Ghirlandaio – esiste solo Michelangelo. E qui gioca non tanto la sua arte, difficilissima da capire anche per chi è del mestiere, ma la sua personalità, l’eccezionalità del personaggio, la mitologia de Il tormento e l’estasi che, dall’uscita del film negli anni ’60, ha sempre accompagnato il suo nome. È così che il pubblico di tutto il mondo, in particolare quello americano, pensa a Michelangelo.L’area di affresco particolarmente suggestiva e’ tutta la serie che sta al centro della volta con gli episodi della Genesi. Quello che personalmente colpisce di più è il primo nell’ordine della narrazione, quello che sta proprio in fondo, in cui Michelangelo rappresenta il “fiat lux”. Si vede questo Padre Eterno come un immenso aquilone librato, e da una parte c’è il buio, il nero del nulla primigenio, dall’altra il bianco della luce. Un’idea geniale: Michelangelo ha saputo tradurre in immagine, in fondo con poche tracce di pittura vera, un concetto vertiginoso.Secondo alcuni critici, i personaggi ritratti nel Giudizio Universale sarebbero manovali e facchini incontrati dall’artista nei bagni della capitale pontificia, luogo di ritrovo abituale per le classi popolari del tempo. A confermare tale ipotesi sarebbero anche le contratte muscolature delle figure buonarrotiane, simbolo di fatiche fisiche reali, non simulate a scopo melodrammatico. Ma c’è dell’altro: i bagni erano pure centro fiorente della prostituzione locale, esercitata sia da uomini che da donne, e Michelangelo avrebbe rappresentato questo “turpe commercio” nelle anime della Sistina, trascinate all’inferno per i testicoli oppure sensualmente accarezzate tra le nuvole del paradiso.Non a caso queste effusioni “oscene” - chiaro riferimento all’ambiguità sessuale dello stesso Michelangelo, protagonista di molte relazioni omoerotiche nel corso della sua vita - furono oggetto di pesanti attenzioni da parte della curia romana, che tentò spesso di nasconderle agli occhi dei fedeli con grottesche “cancellature”. Dopo il Concilio di Trento la Cappella rischiò addirittura la distruzione per via della sua estetica palesemente contraria ai decreti della Controriforma cattolica.
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