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martedì 11 giugno 2013

Se si ammala un “povero” non c’è speranza


di Roberto Burano
La sanità pugliese in questo momento non gode certo di una buona salute, e tutto questo si ripercuote sulla parte debole del sistema, ossia sui malati che non hanno molto denaro da destinare alla cura della propria salute.
 A questo punto mi pare molto attuale un proverbio  salentino del secolo scorso, che descrive una situazione che pensavamo fosse relegata al passato, ma che sembra, paradossalmente, destinata a rivivere oggi. Io l'ho letto su di una rivista on line: Bridge Puglia Usa diretta da Flavia Pankiewicz,  è  commentato dal linguista Prof. Alberto Sobrero dell'Università di Lecce ed  arricchito anche da una china di Bruno Maggio. Buona lettura



La malattia de lu villanu dura vintiquattr’ore
A lla sira lu dottore, a lla mane lu Signore

[La malattia del contadino dura ventiquattr’ore
Alla sera il dottore, alla mattina il Signore]
di Alberto Sobrero



Bruno Maggio. China

Un altro squarcio aperto su un passato che conosciamo molto ma molto indirettamente: ne abbiamo letto qualcosa, per lo più in romanzi o racconti, ma si tratta di condizioni e stili di vita tanto lontano dai nostri che li vediamo ricoperti da una patina di irrealtà, o quanto meno di incredulità. Neppure l’immaginazione aiuta. Certo, anche oggi arrivano le malattie, ma abbiamo il medico della mutua, la farmacia vicino a casa, l’ospedale: e se qualcosa non funziona protestiamo, scriviamo ai giornali, ci scandalizziamo. Ma in passato?

Il proverbio di oggi fa un resoconto fulminante di quello che succedeva, soprattutto nei ceti più disgraziati. Ti ammali? Il dottore lo puoi chiamare solo se si tratta di una malattia grave: non c’è la mutua, e per pagarlo devi – ad esempio – ammazzare un pollo o una gallina, cioè rinunciare a una fonte primaria di reddito, se non al tuo pranzo e alla cena. Il dottore viene dopo un giorno o due o tre (abita lontano, le strade sono dissestate e pericolose, il calesse cammina piano, e poi lui ha tante cose da fare…), dispone di ben pochi strumenti per la diagnosi e di pochissimi rimedi, spesso più dannosi che utili: gli impiastri, le purghe, i salassi. La sua dottrina si basa più sul sapere tramandato che sul sapere clinico e terapeutico, i suoi rimedi attingono più alla farmacopea di tradizionale popolare che alla farmaceutica scientifica. Non è neppure sicuro che l’igiene sia impeccabile...


In queste condizioni, senza i farmaci che oggi sappiamo necessari ma anche senza il sostegno di un’alimentazione sufficiente (la fame è condizione molto diffusa, spesso normale) che cosa può accadere al malato? Semplicemente, si aggrava. Ed è presto pronto per l’estrema unzione: alla sera viene il dottore, che osserva, ausculta, scuote il capo e alza gli occhi al cielo; il mattino dopo viene il prete, che prega, unge, benedice e alza gli occhi al cielo. Un’altra parabola umana si è consumata.

Il nostro proverbio sintetizza in modo mirabile un insieme di condizioni che la storia ci descrive con narrazioni da incubo e la demografia e la statistica fotografano con numeri impressionanti. Oggi in Italia abbiamo una ‘speranza di vita’ di circa 80 anni (per l’esattezza: 79,4 gli uomini, 84,5 le donne), ma se andiamo indietro nel tempo i numeri sono ben diversi. E non è necessario retrocedere di molto: la ‘speranza di vita’ cinquant’anni fa era di 65 anni, ottant’anni fa di 55, nel 1900 era addirittura di 43. Per non parlare del secolo precedente: chi nasceva nel 1880 aveva una speranza di vita di 35 anni. Più o meno come nell’antica Roma.

La media, sino a pochi decenni fa, era drasticamente abbassata dalle guerre, dalla fame, dalle epidemie, dalle carestie e dalle malattie. Fame, carestie ed epidemie a loro volta erano strettamente correlate, perché la carestia generava fame e la fame indeboliva il fisico rendendolo più vulnerabile; le epidemie trovavano così facile diffusione in popolazioni in gran parte debilitate, e per giunta ignare di ogni misura profilattica.

Le classi sociali inferiori erano naturalmente più esposte delle altre al rischio di ammalarsi e di morire in giovane età, perché vivevano in condizioni spesso estreme. Nel Seicento si calcola che nella borghesia morisse il 20% dei neonati e nel proletariato quasi il 4%, e che le percentuali salissero rispettivamente al 38% e al 62% nei primi dieci anni di vita. Se pensiamo a un proletariato rurale, poniamo, del Seicento o del Settecento – si ritiene che questi siano i secoli in cui si ‘ambienta’ la maggior parte dei nostri proverbi – dobbiamo dunque ritenere che ammalarsi gravemente e morire, a qualunque età, fosse un’esperienza tutt’altro che eccezionale: naturale che il ‘villano’ passasse rapidamente dalle mani del dottore a quelle del prete, dalla medicina all’estrema unzione.

A ben guardare, dunque, il nostro proverbio rappresenta una tragedia umana in due atti, con due versi rimati e ritmati che hanno per protagonisti i temi fondamentali dell’esistenza umana dell’epoca: la precarietà della vita (la malattia), l’inferiorità della condizione sociale (lu villanu), la fugacità del tempo (vintiquattr’ure), il superfluo e il caduco della vita terrena (lu duttore), l’ineluttabile dell’Eterno (lu Signore).

Una sintesi fulminante. Un capitolo di storia in due versi.

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