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sabato 23 giugno 2012
350 ANNI FA L’ASSASSINIO DELL’ARCIPRETE DI GROTTAGLIE FRANCESCO ANTONIO CARAGLIO (22 MAGGIO 1662)
Tra prepotenze e violenze baronali,
scomuniche e difese delle immunità ecclesiastiche
di Rosario Quaranta
L’arciprete di Grottaglie Francesco Antonio Caraglio, assassinato nel 1662, a soli 35 anni, per aver difeso l’immunità ecclesiastica dalle prepotenze baronali
Il
24 maggio 1662, davanti al Capitolo della Collegiata di Grottaglie
riunito in
una atmosfera plumbea, D. Niccolò Antonio Angiulli, “procuratore dei morti”, leggeva con
comprensibile dolore e tristezza una
lettera
pervenuta dal Vicario Generale di Taranto che annunciava: essendosi inteso con particolare disgusto
l’assassinamento
fatto da vilissimi et empii
figli
d’iniquità in persona dell’Arciprete di cotesta Terra delle Grottaglie nella Terra di Francavilla
diocesi d’Oria,
Mons. Arcivescovo con il
suo solito
zelo pastorale non tralasciando oprare quanto sarà necessario e li viene imposto da’ sacri
canoni
per il castigo di sì enorme delitto;
vuole
intanto che le SS. VV. per trenta giorni festivi nel Choro genuflessi prima della
Messa conventuale recitino ad alta voce
l’acclusi salmi et oratione contro
quelli sacrileghi. Onde lo notifico alle SS. VV. e li bacio le mani. Taranto li 23 maggio
1662.
Delle Signorie Vostre affetionatissimomo servitore Abate Ottaviano de Raho.
Era la mesta notizia dell’omicidio perpetrato
nella persona dell’arciprete. Il testo della
missiva, scarno e laconico, nascondeva una
somma di gravissime tensioni, culminate tragicamente, tra la chiesa
grottagliese e gli amministratori (curia baronale e governo cittadino).
L’uccisione di un
ecclesiastico, per quanto esecranda, non era un caso unico, né sporadico, in
quel tempo di prepotenze e di tirannia. La nostra mente
correrà senza dubbio alla descrizione manzoniana del degrado
politico-giudiziario nella Lombardia del secolo XVII; dalle
nostre parti la situazione non fu migliore. Basti pensare
che qualche anno prima, nel 1656 sempre a Grottaglie, ci fu un analogo
delitto contro l’arciprete di Faggiano.
Era da decenni che in Terra d'Otranto, come in tutte le
altre province del Viceregno, l’autorità del potere centrale e la
giustizia dello Stato non riusciva a far sentire la propria voce contro lo
strapotere dei feudatari locali.
Il Clypeus (1650 c.), opera polemica del Caraglio, scritta contro la pretesa di preminenza della Chiesa di Martina su quella di Grottaglie (copia del 1737)
Uno storico del secolo
scorso, il canonico Carmelo Pignatelli, dedicò al Caraglio alcune
pagine delle sue Biografie degli scrittori grottagliesi
(1875), definendolo Una vittima del dispotismo feudale.
La presentazione che egli ne ha fatto (seguito dagli storici
successivi) è però angusta e riduttiva; poiché si limita a vedere in lui l’ardito
arciprete che s’oppone all’arroganza del feudatario, il quale esigeva il baldacchino in chiesa, nella casa del Signore, e perciò
punito per un eccesso di zelus
domus Dei sgradito al signorotto
prepotente. Vedremo invece che il motivo sarà di natura e di portata
diversa. Una ricostruzione tinta di un certo psicologismo romantico, allora di
moda, che, se rende gustosa e piacevole la narrazione, non dà giustizia del fatto, esulando da una obbiettiva esposizione storica.
Lo Status, impegnativa opera in due tomi, scritta da Francesco Antonio Caraglio nel 1559, sui diritti e privilegi della Collegiata grottagliese (copia del 1737)
Francesco Antonio Caraglio nacque in Grottaglie
il 4 settembre 1627 da Giovanni Antonio notaio e da Rosa Aurifatis;
Apparteneva dunque a una famiglia agiata che gli consentì
di compiere gli studi e di intraprendere la carriera ecclesiastica. Riuscì
ad addottorarsi giovanissimo in diritto a Roma e a divenire canonico e
arciprete della collegiata prima ancora di
essere ordinato sacerdote. Nel maggio del '49, insieme con altri due
rappresentanti del clero, si recò a Taranto
per l’ubbidienza a S. Cataldo; il
capitolo grottagliese venne multato nell'occasione con 150 ducati perché avrebbe
dovuto mandare almeno dieci persone; ma non l’aveva fatto per non creare
pregiudizio in una celebre questione di precedenza
che vantava sul clero martinese e che lo stesso Caraglio difese
magistralmente nella sua prima opera intitolata Clypeus adversus Martinensium praetensiones, scritta appunto in quegli anni.
Nel marzo 1650
loritroviamo
arciprete: a 23 anni appena è il personaggio principale e più stimato della
Terra delle Grottaglie! Le
aspettative non furono deluse poiché egli riuscì a guidare con sicurezza la
vita religiosa di un centro che contava un
clero numeroso, geloso delle proprie
prerogative e privilegi.
Ma il problema maggiore era
costituito dall’autorità feudale, divisa in
Grottaglie tra barone ecclesiastico, in persona dell’arcivescovo di Taranto per la giurisdizione civile e gli
introiti baronali, e barone laico
per la giurisdizione criminale e altri diritti: una intollerabile situazione
che provocò (com’è facile immaginare) non poche rivoluzioni violente.
Sul finire del 1652
gli amministratori dell’Università impongono sul macinato la
gabella di una “cinquina per tumolo da macinare al posto della
portulania” anche ai preti che però ne informano l’arcivescovo perché li tuteli nella
loro immunità. Il periodo dell’alleanza tra Università e clero sembra
tramontato; ormai sia questa che il feudatario laico tenteranno con ogni mezzo
di far pagare anche agli ecclesiastici
alcune tasse coperte dall’immunità. A difesa del diritto è senza dubbio l’arcivescovo
Caracciolo, ma in prima fila nella
rischiosa battaglia si troverà, perché investito della prima dignità capitolare, il giovane e coraggioso
arciprete Caraglio.
Intanto, nel 1653, il
Capitolo affida al suo capo l’impegnativo incarico di mettere
ordine nella confusa situazione e dei molti beni appartenenti alla
Chiesa per i quali v’erano contestazioni e liti in mancanza
degli strumenti relativi al diritto di possesso; il vecchio registro non
costituisce più un sicuro fondamento giuridico; è necessario quindi riordinare ogni cosa reperendo gli strumenti e, in
mancanza di questi, annotando con dichiarazioni giurate il diritto sopra tali beni.
Francesco Antonio Caraglio,
in anni carichi di occupazioni e oneri, trova il tempo per
portare a termine un ambizioso disegno: la compilazione dello Status
Insignis Collegiatae Ecclesiae Cryptaliensis, un’ampia
raccolta, ordinata e giuridicamente fondata, di tutte le leggi, usi, consuetudini,
diritti della Chiesa grottagliese. Non era
la prima fatica poiché, come abbiamo visto, intorno al 1650 aveva scritto un’opera storico-giuridica
sulla vecchia questione della
precedenza sul clero di Martina, il Clypeus, opera d’erudizione,
ma tutto sommato, per il carattere apologetico
e campanilistico, dal sapore d’esercitazione accademica. Il Capitolo non poteva non accettare con
entusiasmo
la fatica dell’ottimo arciprete perciò si concluse vivae vocis oraculo, che siino
rivisti tal volumi dalli signori del Capitolo, gridarono che si stampi e
spendasi quanto si può spendere, e così fu concluso.
Purtroppo, di stampa non se
ne parlò più perché e le sue opere rimasero manoscritte, come venne annotato
su una copia tardiva dello Status colui che perseguitò lo stesso autore fino
alla morte, fece in modo tale e si preoccupò che i due volumi non fossero
dati alle stampe. Si profilano ormai minacciose e oscure
nubi di morte.
La Insignis Collegiata di Grottaglie, dedicata alla Vergine Annunziata
La seduta capitolare del 3 luglio 1659 non poté tenersi, pur essendo presenti 78 membri, per alcuni
impedimenti. Non si sa con precisione
cosa succedesse in quell'anno, ma un editto di Mons. Caracciolo contro i vessatori del clero lascia
intuire gravissime tensioni tra ecclesiastici,
governo cittadino e feudatario laico che ora, ahimè, è il principe di Cursi D. Giovanni Cicinelli spalleggiato da un sinistro agente, il principe di Faggiano,
suo nipote. Il testo dell’editto
parla di “molte ingiurie verbali e di fatto, vessazioni, molestie e inquietudini, dirette e indirette,
inflitte quotidianamente alle persone ecclesiastiche con grave scandalo
del popolo e detrimento della Chiesa” da parte degli Officiali della curia baronale, del sindaco, degli eletti, gabelloti,
esattori, inservienti e aguzzini;
Ricorda pure che un sacerdote che mostrava loro
un monitorio conservatoriale dell’Uditorio
Camerale venne malmenato e minacciato
di essere gettato dalla finestra. La scomunica per i vessatori è incombente. Il presule raccomanda agli
ecclesiastici di sopportare con
cuore impavido e petto virile le molestie, senza cedere in alcun modo
alle “pretensioni”, e di ricorrere esclusivamente al proprio Pastore per la difesa dell'immunità
ecclesiastica. Anzi vieta tassativamente di piegarsi
ai prevaricatori sotto pena di scomunica o di sospensione a divinis.
Un vero e proprio braccio
di ferro che troverà tra non molto una vittima.
L’editto portò
indubbiamente nel clero un senso di fiducia ed infuse coraggio nei più pavidi, ma
ebbe anche l’effetto di inasprire ancora di più l’animo degli avversari. Il 15
agosto 1661 il capitolo discute sul caso di
tal Leonardo La Pace, molestato dagli amministratori
perché non tenga botega di carne nella piazza, ma fuori alla
porta; era un doppio attacco all'immunità in quanto la
bottega apparteneva
al capitolo e serviva quindi per controllare il dazio della carne.
La Insignis Collegiata di Grottaglie, dedicata alla Vergine Annunziata
La situazione ormai
precipita. Alcuni giorni dopo si riprende la questione concludendo di resistere
alla palese provocazione, anche perché secondo si dice, lo fanno a dispetto del
Capitolo ed è chiaro quindi
il mal animo di questi che governano. Si ricorrerà invece nuovamente al superiore
ecclesiastico in Taranto, Napoli e Roma per rappresentare tanti aggravi et ingiustizie, che vengono fatti
giornalmente alli Preti, e spendersi
ogni qualunque somma. Si ascolta
pure il consiglio del saggio
vegliardo D. Federico Lo Monaco che saria bene passare ufficio con questi del governo, che
desistessero da tali molestie.
È il 15 novembre 1661. Al Capitolo
prendono parte soltanto 51 tra canonici e sacerdoti; oltre la
metà erano quindi gli assenti, segno della paura che coglie diversi ecclesiastici nel
frangente.
Prende la parola l’arciprete per fare il punto e ragguagliare la Chiesa sulle provocazioni
e violenze a danno non solo degli ecclesiastici, ma anche dei familiari; ecco il crudo resoconto riportato senza
mezzi termini nella relativa “conclusione capitolare”: Alli quali fu proposto dal Rev. Signor
Arciprete come non contento il signor Principe di Cursi Padrone del
Criminale di questa Terra, et il Signor Principe di Faggiano Nepote et Agente
generale di quello in detta Terra, d'havere in una tassa successiva
gravato notabilmente li Padri, Sorelle, anco Vergini et altri parenti de'
Preti conforme si dichiararono più volte, et anco contro la forma delle
Regie Prammatiche le quali ordinano che paghino le persone solamente che
hanno in bonis e non obbligano ancora le Vergini in capillis, né vedove povere,
né contenti ancora d'havere buttato il sale in casa ancora de' soli Preti senza
chiedere licenza a Mons. Arcivescovo, o suo Vicario, come anche d'haver fatto alloggiare molte
volte nelle case degli stessi Preti, et contro la disposizione delle leggi
civili, e fatti far pegni nelle robbe detti medesimi, hanno in oltre con ordini spediti da
Napoli deputate persone laiche a conoscere le donationi fatte alli
Preti da loro padri e Parenti, né sodisfatti di questo hanno carcerato, e fatto
renunciare a forza alli Clerici Selvaggi che attualmente
servivano la Chiesa le loro patenti, tanto che questa Collegiata nelle feste solenni
non have havuto persone che suona le campane, e menare li mantici
per l'organo e non s'è scopata per otto mesi continui, perché li serventi essendono
stati necessitati a pagare non volsero più servire, né contenti
infine, d'haver fatti tanti e tanti eccessi contro la Chiesa come alle SS.
VV. è noto. Ultimamente per atterrire, che nessuno defenda l'immunità
ecclesiastica, e per poter fare a muodo loro nella tassa che dovrà ponersi fra
pochi giorni, e per fare il catasto senza contradizione del Capitolo,
conforme n'hanno ottenuto gli ordini divulgati, il Signor Principe di Faggiano
et il sindaco hanno fatto carcerare molti parenti delli Preti di questo Rev.
Capitolo et in particolare sua madre vecchia e sorella le quali l'hanno
trasportato nel Regio castello di Taranto, et altri nella Regia Audientia di
Lecce, et altri refuggiati in Chiesa. Che però stantino le cose suddette, che
vogilino pigliare l'espediente necessario per la difesa dell'immunità
ecclesiastica, non havendo mai havuto questa Chiesa una simile persecutione. Quale proposta intesa
da tutti, fu concluso; pari voto et nemine discrepante, che si vada unitamente
da Mons. lll.mo Arcivescovo e ringratiarlo, mentre con tanta intrepidezza
ci ha difeso nel passato, e pregarlo, che voglia continuare per
l'avvenire, e che per la difesa dell'immunità e di questo Capitolo, e delle
persone particulari di quello si destini una o più persone in Roma et in Napoli
appresso S.E., e dove sarà necessario ad arbitrio di Mons. lll.mo che
prendine la difesa di detto capitolo, e di dette persone, particulari con
assistere in detti luoghi per le cause suddette, e per quanto potrà occorrere
per l'avvenire e si diede facultà alli RR. Procuratori presenti e D.
Giuseppe Pulignano, che si faccino le procure necessarie, et altre
scritture che bisognaranno, e che piglino dall'entrade del Capitolo tutta
quella somma di denari che bisognerà per lo viaggio, mantenimento e
spese di detta persona, o più d'Avvocato, e Procuratore, et ogni altra
spesa che v'occorrerà facendoli buoni alli conti con produrre lista delle
persone, o persona, che si destineranno, e quando non bastassero l'entrade
del capitolo tutti unanimiter conclusero che si vendessero le loro robbe
particulari, perché tale obligo hanno di difendere l’immunità ecclesiastica,
la Chiesa propria, e le persone che patiscono, e s'hanno concepito odio col
Padrone criminale, e col Principe di Faggiano suo nepote per defendere le
cose della Chiesa, et in particolare il rev. arciprete, quale patisce lui,
e le sue persone e particolarmente per haver contrastato, e fatto
scomunicare il principe di Faggiano per causa delle botteghe del
Capitolo, e così fu concluso & et in fidem D, Lucantonio Nuboli
cancellano.
Il documento non poteva
dipingere più chiaramente la persecuzione scatenata contro
la Chiesa grottagliese dagli amministratori della curia
baronale e dell’università!
Si badi alle parole finali: si fa esplicito
riferimento a due persone, D. Giovanni Cicinelli
feudatario, e il principe di Faggiano suo
nipote, come coloro che più aspramente vessano gli ecclesiastici e in particolare l’arciprete e parenti
perché ha osato contrastare e fatto
scomunicare il Principe di Faggiano. La minaccia di scomunica di Monsignor Caracciolo non fu un
semplice flatus vocis, ma sortì realmente effetto. Un affronto simile
non poteva essere tollerato dal tracotante
signorotto, forse non del tutto estraneo all’uccisione dell'arciprete di Faggiano del 1656.
Il 30 novembre 1661 vi fu
l’ultima apparizione in Capitolo del giovane prelato
grottagliese. Si trattò di vendere al Principe di Cursi
proprio le botteghe nella piazza, che erano state all’origine di
sì grave turbamento, per poter egli ampliare il palazzo baronale. Il
Caraglio, nel raccomandare l’utilità della Chiesa e nel contempo la
soddisfazione del principe, propendeva per l’assenso, ma incaricò
una commissione di studiare bene la cosa.
Nelle successive
conclusioni egli non compare più, per cui è lecito supporre che,
minacciato di morte e prevedendo la sua fine, abbandonasse
Grottaglie per recarsi in Francavilla, forse presso parenti.
Il 2 aprile 1662, certamente per ulteriori pressioni e
intimidazioni, non si potè fare il capitolo, nonostante i presenti.
Il 22 maggio 1662, esattamente 350 anni
fa, si consumava il tragico epilogo: l’assassinio per mano sicaria del giovane arciprete
in Francavilla. L’arcivescovo Caracciolo, ormai vecchio e addolorato, s’adoperò di far luce sul gravissimo episodio
ma, cosa normale per quei tempi, senza alcun risultato concreto e definitivo.
Il principe Cicinelli, ritenuto non senza
fondamento, il mandante del crimine sacrilego, venne sì inquisito, ma non si
riuscì a condannarlo, nonostante la
coraggiosa presa di posizione del Caracciolo e dei vari successori sulla cattedra di S. Cataldo presso la
corte vicereale, la corona spagnola e perfino presso la curia romana e il papa.
E così il tracotante
e potente barone laico (peraltro coltissimo e buon letterato, come dimostra la
sua Censura del poetar moderno del
1672) continuò, anche nelle persone dei suoi successori, a tener testa
spavaldamente in quella estenuante contesa giurisdizionale con gli arcivescovi
di Taranto generatasi a fine Quattrocento con il deleterio sdoppiamento feudale
cui la Terra delle Grottaglie soggiacque
fino all’eversione della feudalità.
Rimane ancora nell’archivio
parrocchiale di Francavilla (Necrologium Archipraesbyteralis Collegiatae Ecclesiae Francavillensis,
v. I, anno 1662, f. 47r) l’atto di morte
del coraggioso arciprete grottagliese che recita freddamente: “II
S. D. Francesco Antonio Caraglio, Arciprete delli Grittaglie
passò a miglior vita e fu sep. nella Collegiata con pomp. fun. a
22 maggio 1662”. Null’altro. Finanche il sacrista di quella Collegiata evitò
per prudenza o, meglio, per paura, di annotarvi la causa della morte: a tal
punto arrivava la tracotanza di quei feudatari!
Solo la scomunica
comminata agli anonimi esecutori fece, per così dire, giustizia del nefando
crimine. Ecco la descrizione della lugubre cerimonia annotata coraggiosamente in
un’aggiunta posteriore dello Status: Questi (F. A. Caraglio}, contrastato
in ogni modo per le patrie leggi e per la difesa dell’immunità ecclesiastica,
abbandonata la sua casa, mentre viveva esule, venne eliminato per ordine dell’empio
persecutore con un colpo d’archibugio per mano di scelleratissimi sicari.
Il delitto di morte sì inumana fu perpetrato in Francavilla il 22 maggio 1662
alla prima ora della notte. L’illustrissimo Caracciolo, Arcivescovo di
Taranto, per rispondere alla scellerata azione comminò per tutta la
diocesi la scomunica in questo tenore. Il primo giorno della Pasqua di
Pentecoste del 1622, durante la messa solenne, dopo il Vangelo, comandò che in
sagrestia 24 sacerdoti, rivestiti dei paramenti sacerdotali di color
rosso, portando in una mano un cero nero acceso e nell'altra una pietra
nera, procedessero a due a due dietro l'altare maggiore mentre un chierico
agitava continuamente un campanello; per ultimo accedeva una Dignità o
Canonico in cotta e piviale nero, mentre tutti si disponevano in cerchi nel
presbiterio. La Dignità o canonico, col piviale, tra due chierici con
nere torce accese, salivano sul pulpito e di lì lanciava con parole
appropriate il fulmine del fiero anatema. Dopo queste cose, tutti, con
voce lugubre, recitavano il salmo Deus laudem
meam ne tacueris. I ventiquattro sacerdoti suddetti
e i due chierici sul pulpito capovolgevano i ceri accesi dai quali profluivano
orrende fiamme a mo' di lingue dalla cera liquefatta. Finito il salmo, tutti, dopo aver gettato in mezzo i ceri
e le pietre, ritornavano in sagrestia,
mentre le campane di tutto il paese sonavano con rintocchi funerei, come volgarmente si dice a bandolo, e così per più giorni festivi fu osservato....
Una scena d’effetto, tra l’orrido
e il lugubre, con la quale il clero, privo del suo elemento
più valido, manifestava il suo dolore. Per tutti (come recita un’epigrafe) fu la
perdita di un uomo insigne non solo nelle lettere, ma per la somma integrità di
vita, per la rara prudenza e per lo schietto esercizio del dovere.
La morte violenta non ha,
infatti, cancellato un nome che rimane ancora, e giustamente, nella fama e nella
considerazione dei posteri, non solo per le opere scritte, ma principalmente
per l’esempio d’indomito coraggio di fronte
alla sopraffazione e alla prevaricazione.
Fulgida figura, quella di Francesco Antonio Caraglio, inserita nei tristi avvenimenti, vissuti
e sofferti in prima persona, che riguardavano, tutto sommato, una
comunità, una civiltà, una cultura.
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"Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero". Pierpaolo Pasolini scrittore ammazzato nel novembre del 1975
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“Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare”.
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