Sul Corriere della Sera on line del 4 maggio 2012, Dario di
Vico titolava, a proposito del sequestro presso l’Agenzia Entrate di Romano di
Lombardia: “Tanti urlatori ma è saltata ogni solidarietà. La vicenda di Romano
di Lombardia è la dimostrazione che la società vive uno stress senza
precedenti”
Il mondo attuale, se da un lato
ha portato a conquiste positive (individualismo, maggiore libertà), dall'altro
ha richiesto un costo altissimo in termini di solitudine, vuoto di ideali e
incertezza collettiva.
Se una volta la solitudine era un lusso di poche persone privilegiate,
artisti, santi, poeti, intellettuali ecc., oggi, per l’uomo della civiltà
industriale, la solitudine è diventata sinonimo di malattia sociale. Molti
dicono che sia il più grosso flagello del mondo moderno. Mai l’uomo si è
sentito così vicino fisicamente agli altri e così distaccato, così solo,
anonimo. O per lo meno l’uomo, mai come nella nostra epoca, ha preso coscienza
della propria solitudine come incapacità di comunicare con gli altri. Lavoriamo
insieme, viviamo insieme, viaggiamo
insieme, preghiamo e pecchiamo insieme, ma non “si è” insieme. Siamo diventati folla
anonima. Sempre meno l’uomo è qualcuno, siamo diventati numero, scheda. Anche
nel momento tragico delle malattie e della morte. Forse la sensazione di
sentirsi insieme senza “essere” insieme è la più terribile solitudine. Una
solitudine che addirittura ci spinge, paradossalmente, a desiderare e amare la
solitudine, cioè la solitudine anche fisica.
Questa solitudine del collettivo, che l'uomo ha sperimentato in momenti
drammatici quali i campi di concentramento, le guerre, le carceri, gli
ospedali, oggi è diventata realtà quasi in ogni circostanza della vita moderna.
Questo tormento l'uomo lo avverte continuamente, anche in famiglia.
Appartamenti piccoli costruiti non a misura d'uomo ma della speculazione
edilizia ci costringono a vivere senza uno spazio di intimità personale. E'
sintomatico che per tanti esseri umani di città l'unico spazio personale sia il
bagno, che convertono in sala di lettura.
Viviamo in bilico su questo paradosso: siamo malati di solitudine e
nello stesso tempo soffriamo perché non
troviamo né il tempo né lo spazio per restare soli. Si tratta, come
possiamo ben osservare, di una condanna tremenda. "Amiamo la compagnia,
anche se questa è rappresentata soltanto da una candela accesa". Il fatto
è che come esseri umani, non siamo ancora perfettamente realizzati, siamo pellegrini
in una terra che ci è stata data in eredità ma che sentiamo ostile. Ma allora
l'esigenza di comunicabilità e d'incontro camminano insieme con l'esigenza di
solitudine? L'essere insieme ci risveglia la nostalgia della solitudine e la
solitudine ci acutizza il desiderio dell'incontro? Mi viene da dire che forse è
vero che amiamo ciò che ancora non abbiamo. Le città affollatissime, simili a
deserti allucinati; i palazzi e i grattacieli, con decine e centinaia
d’appartamenti, simili a spettrali torri popolate da fantasmi; gli autobus, i
tram, i veicoli privati che sfrecciano nel buio della notte, simili a fuggevoli
sprazzi di luce, che si perdono poi subito nel caos tentacolare, mentre subito
degli altri sopraggiungono senza pose, senza pace, mai: si direbbe un brutto
sogno…
Eppure si era meno soli quando si era di meno; quando si
era meno numerosi, meno concentrati, meno affollati.Viviamo in una società
fondata sul profitto, sul consumo, sulla produzione, sulla divisione del
lavoro, sui valori che dividono gli uomini, sulle classi (anche se
tendenzialmente dagli anni ottanta in poi si è cercato di attenuare il
problema), sulla violenza. Tutte componenti della solitudine.
Perché, se siamo stati creati per la logica dell'incontro, una società fondata
sui valori del successo ad ogni costo, della sessualità senza l'ideale
dell'amore, della sopraffazione e dell'efficienza ci obbliga a sotterrare le nostre esigenze più
intime. Siamo una società che ci obbliga a metterci di fronte all'altro come
concorrente, come antagonista, come straniero, con tante maschere, anziché come
esseri umani simili a noi, chiamati ad incontrarci per quello che siamo e non
per quello che ci fanno essere. Viviamo in una società individualistica
condannata, per sopravvivere,a una situazione che non si sente come destino
comune, che è di essere uniti e non in lotta perenne con gli altri.Il timore di perdere il lavoro, il benessere raggiunto o il posto nel
treno dell'efficienza ci costringe a vivere lacerati fra l'esigenza di quiete e
di pace e l'urgenza di correre sempre, di non avere mai tempo per l'amore, per
la poesia, l'amicizia. Viviamo sempre col piede sull'acceleratore, sempre sulla
strada La solitudine sfortunatamente non ha età. Ce la troviamo in tutto l'arco
della nostra esistenza. Nasce con noi e ce la portiamo nella tomba a meno
che....questo è un argomento che tratteremo in seguito, per ora limitiamoci al
tema in oggetto.
I due momenti di più profonda solitudine per noi umani sono infatti la nascita
e la morte. Questi istanti di suprema solitudine si esprimono sensibilmente con
un urlo o un pianto come a significare lo choc dell'abbandono estremo.
Ogni bambino nasce piangendo. Dal caldo umido e protettivo dell'utero materno,
che lo ha avvolto per nove mesi offrendogli, attraverso il tatto, la prima e
più importante esperienza vitale, si trova di colpo solo.
Siamo i figli di mezzo della
storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra né
la grande depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale, la
nostra grande depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la
televisione che ci ha convinto che un giorno saremmo diventati miliardari, miti
del cinema, rock stars. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando. E ne
abbiamo veramente le palle piene. “Tu non sei il tuo lavoro, non sei la
quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il
contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei
la canticchiante e danzante cacca del mondo! Le cose che possiedi alla fine ti
possiedono.Respingo i principi base della civiltà, specialmente l'importanza
dei beni materiali.Sentite balordi, non siete speciali, non siete un pezzo
bello, unico e raro. Siete materia organica che si decompone come ogni altra
cosa. Siamo la canticchiante e danzante cacca del mondo. Facciamo tutti parte
dello stesso mucchio di letame. Omicidi, crimini, povertà. Queste cose non mi
spaventano. Quello che mi spaventa sono le celebrità sulle riviste, la
televisione con cinquecento canali, il nome d'un tizio sulle mie mutande, i
farmaci per capelli, il viagra, poche calorie”.
Come non concordare con Salvatore Quasimodo?
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
caro professore, sono un tuo amico e forse facilemente individuabile.Che tu scrivi benissimo non ci sono dubbi, solo chi non ti conosce poteva non saperlo.Scrivi in maniera bella e chiaramente e così trasformi le cose difficili in facili e le fai capire a tutti.Dote professionale di quell'ottimo professore che sei.Sto raccogliendo tutti i tuoi articoli e li mando anche ad amici lontani su face book.Una domanda e un invito:perchè non organizzi una conferenza su un tema trattato o da trattare? Lo fanno tutti anche i fessi, non vedo perchè non lo devi fare tu che sei un esperto.
RispondiEliminaUn saluto ciao
C.T.