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domenica 1 luglio 2012

Il Regno delle Due Sicilie: un po’ di verità?


Credo che i sostenitori filoborbonici abbiano molte  ragioni da vendere, non perché io sia filoborbonico, ma semplicemente per amore della verità e, in questo caso la verità storica, non quella fatta, scritta, musicata e cantata dai vincitori, ci dice che, se Garibaldi non si fosse fatto strumentalizzare da quell’astuto del Conte di Cavour, la stessa Storia del Meridione e, conseguentemente, la questione meridionale, che da quel 1861 si trascina senza alcuna soluzione, sarebbe stata sicuramente diversa. Per carità, nessuno vuole essere tacciato di sovversivismo. La Repubblica Italiana resta un baluardo nel mondo civilizzato e per nessuna ragione al mondo, nemmeno per quello che professano i dementi leghisti, si può tornare indietro. Eppure, bisogna ristabilire un briciolo di verità nella Storia così come ce l'hanno fatta studiare sino ad oggi.

Da "Scienze delle Finanze" di Francesco Saverio Nitti (Pierro, 1903) scopriamo che le monete degli antichi Stati Italiani al momento dell'annessione ammontavano a circa 669 milioni, di cui ben 443 milioni appartenevano al Regno delle Due Sicilie (il Banco di Napoli poteva vantare la più grande raccolta di denaro pubblico) e i restanti 226 milioni erano ripartiti fra: il regno di Sardegna, Lombardia, Ducato di Modena, Parma e Piacenza, Roma, Romagna - Marche e Umbria, Toscana, Venezia. Come dire che nel Regno dei Borbone c'erano il doppio dei soldi che nel resto d'Italia. Persino la Borsa di Parigi, allora la più grande del mondo, quotava la Rendita dello Stato napoletano al 120 per cento, ossia la più alta di tutta l'Europa. Il Regno prima dell'avvento dei Borbone non se la passava bene, ma con il loro avvento le cose cambiarono radicalmente, a cominciare dal numero degli abitanti. Nel 1815 quando essi rientrano di nuovo la popolazione era di 5.060.000 e nel 1836 di 6.081.993, nel 1846 la popolazione arrivò a 8.423.316 e dieci anni dopo a 9.117.050. Questo vorticoso aumento della popolazione ha nome e cognome: benessere e progresso civile e sociale.
Durante i 127 anni di buon governo i Borbone diedero prosperità a tutto il popolo. I Borbone incivilirono e resero innocui i vari baroni del Regno, costruirono strade, ricostruirono l'esercito e le amministrazioni locali cui diedero l'antica autonomia, come diedero grande impulso all'industria, all'agricoltura, alla pesca, al turismo. Da ultimo tra gli Stati, divenne il primo d'Italia e tra i primi nel mondo. Le ferrovie, inventate nel 1820, ignote in Italia, fecero la loro prima apparizione a Napoli (1839) con il tratto che conduceva la capitale a Portici e poi fu concessa al Bayard di continuarla fino a Castellammare. A spese del tesoro borbonico nel 1842 cominciò quella per Capua e poi l'altra per Nola, Sarno e Sansevero. Nel 1837 arrivò il gas e nel 1852 il telegrafo elettrico, primissimi in Italia. Le strade erano sicure, non più masnadieri per terra né pirati per mare; eliminate le leggi feudali diedero ordine ai territori di tutto il regno e concessero, primi al mondo, la terra a chi la lavorava; furono così estirpate le boscaglie per far posto a frutteti e vigneti; furono prosciugate le paludi di tutto il regno e regalate ai contadini le terre fertili; furono ripuliti ed arginati fiumi e torrenti.
Si mise ordine all'amministrazione pubblica e a quella del Regno delle Due Sicilie. La scuola pubblica fu istituzionalizzata come primaria e quella religiosa a far da supporto. Laicismo e religiosità si confondevano e gareggiavano in rivalità, dando al regno nuovo impulso culturale. Fiorirono pittori, architetti, scultori, maestri di musica. Il Teatro San Carlo, primo al mondo, fu costruito in soli 270 giorni e la stessa corrente culturale fece nascere l'Officina dei Papiri, il Museo Archeologico, il Real Orto Botanico, l'Osservatorio Astronomico e, primo al mondo, l'Osservatorio Sismologico Vesuviano e la Biblioteca Nazionale. Lo sviluppo industriale fu travolgente e in venti anni raggiunse primati impensabili sia nei settori del tessile che in quello metalmeccanico con 1.600.000 addetti contro il 1.100.000 del resto d'Italia. Nacquero industrie all'avanguardia e tecnologicamente avanzate dando vita a ferrovie e battelli a vapore e costruendo i primi ponti in ferro in Italia, opere d'alta ingegneria in parte ancora visibili sul fiume Calore e sul Garigliano. Vennero istituiti collegi militari come la Nunziatella, Accademie Culturali, scuole di Arti e Mestieri, Monti di Pegno e Frumentari. Le Università sfornavano fior di professionisti e scienziati e il Regno poteva vantare il più basso tasso di mortalità infantile in Italia. Erano sparsi sul territorio ospedali, ospizi per i poveri e ben 9.000 medici.
Al Piemonte interessavano solo i soldi dei Meridionali. Il 13 febbraio 1861 cadeva la fortezza di Gaeta: tre mesi di resistenza eroica, tre mesi di sofferenze disumane, tre mesi di massacri perpetrati dal Generale Cialdini. 160mila bombe rasero al suolo la città tirrenica e fiaccarono per sempre la sua vitalità ma non la sua storia. Eroico fu Francesco II, il giovane re napoletano, ed eroica fu la sua consorte, regina Sofia; eroica fu la truppa ed eroica fu la gente di Gaeta che in massa entrò nella cittadella fortificata per difendere la propria libertà e la propria dignità. Camillo Benso Conte di Cavour sapeva che il Piemonte era alla bancarotta (bisognava pagare i debiti di guerra con la Francia) e non c'erano più soldi per pagare questa guerra. Al Piemonte interessava la conquista delle ricchezze del Sud, delle sue riserve auree (guarda caso custodite presso il Banco di Napoli, che oggi viene annesso al San Paolo IMI di Torino), delle sue fabbriche.
Il 13 febbraio 1861 è una data che ogni Meridionale dovrebbe memorizzare, perché è da allora che i vincitori spudoratamente scrivono e fanno studiare tutto il brutto possibile dei Meridionali: brigante, fannullone, codardo, infingardo, avvezzo al bacco, tabacco e venere, stupratore, traditore e quant'altro ancora oggi ci portiamo appiccicato addosso.Da allora venne attuata sistematicamente la cosiddetta “piemontesizzazione”, che innumerevoli volte ho spiegato ai miei alunni.
Dopo il 13 febbraio 1861 il civilissimo e laborioso Mezzogiorno d'Italia, patria di Pitagora, Archimede e Cicerone, di Tommaso Campanella e Giordano Bruno, di Giovanni Caboto ed Ettore Fieramosca, patria dei Cesari che diedero la civiltà al mondo, terra della Magna Graecia,di colpo, diventò primitivo e barbaro agli occhi del resto d'Italia e del Mondo.
E cosa c’entra tutto questo con l’Unità d’Italia?
Centra, perchè si sta festeggiando un evento che è costato, appena ieri l’altro in fondo, migliaia di morti; che anche se era stato voluto da pochi e anche se la motivazione principale era lo sfruttamento economico e l’annullamento di un popolo pacifico, l’ideale originario che ne fu motore, quello dell’affratellamento, di un’unica bandiera, di un unico stato, di un’unica lingua, è oggi ancora valido. Soprattutto per il rispetto di quei morti.
Centra perchè dopo tanta fatica nell’unificare oggi si parla di separare. C’è chi non si sente “italiano”, ma legato ad un’altra nazione per storia e vicinanza. C’è chi vorrebbe che l’Italia si fermasse più o meno al centro, dimenticando e lasciando affondare quello che c’è sotto. C’è chi vorrebbe usare il sistema dei due pesi e delle due misure, ignorando, più o meno volutamente, che se oggi c’è più benessere economico al nord, è perchè un secolo e mezzo fa, quando la situazione era rovesciata, sono state le risorse del Sud a spingere il motore settentrionale, senza avere niente di niente, in cambio.
Ma tutto questo è stato il passato, un passato che è diventato comune a prezzo di sangue. . Perchè ci è costato caro. Perchè se qualcuno l’ha voluta, questa unita',ora ce l’abbiamo. Perchè è assurdo fare nuove lotte di separazione. Perchè le differenze fra meridionali e settentrionali ci sono, ma sono spiegabili e soprattutto superabili. Perchè, di fronte alla Storia, siamo nati tutti insieme, e siamo davvero tutti figli di una stessa madre, che se pure a volte è matrigna, crediamoci: più bella, più colta, più libera, al mondo, non c’è.

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