“Si muore generalmente perché si è
soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché
non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In
Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a
proteggere”
E’ il tema che assegnai in una mia Classe V nell’ormai
lontano 2004, dopo che avevo fatto
adottare, come corso monografico di Storia per la medesima classe, il libro
“Cose di Cosa Nostra”, intervista di Marcelle Padovani al magistrato siciliano
Giovanni Falcone e da cui è tratta la frase di cui sopra.
Falcone e Borsellino:
due nomi, un solo luogo del nostro immaginario collettivo, a testimonianza di
una tragedia che ha colpito tutti, un intero popolo. E' difficile scindere
questo binomio, impossibile parlare di Giovanni, senza immediatamente
ricordare Paolo. Nella nostra mente si è insediato un automatismo che sarà
difficile rimuovere. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano uniti in vita, legati
da un “mestiere” che per loro era missione: liberare la società civile
dall'oppressione di una “mala pianta”- la mafia - che nasce, vive e
prospera nello stesso umore nutritivo prodotto dalla Sicilia. Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino sono ora inscindibili nella nostra memoria. Come
accade per quanti diventano simbolo contro la loro stessa volontà, eroi
soltanto per aver voluto esercitare il diritto di affermare le proprie idee,
per aver rifiutato la via facile dell'accomodamento e del quieto vivere. La
loro fine, orribile e tragica, li ha fusi insieme. Così che oggi, quasi
naturalmente, il viaggiatore che si avvicini alla Sicilia sentirà i loro nomi
prima ancora di mettere piede nell'Isola. Al momento dell'atterraggio sarà la
voce del comandante ad informare che “tra pochi minuti atterreremo
all'aeroporto Falcone - Borsellino”. I siciliani, i siciliani onesti amano quei
magistrati caduti a meno di due mesi l'uno dall'altro. I mafiosi li rispettano,
come li temevano quando erano vivi. (...)
I colpi subiti dai collaboratori di giustizia, i pentiti. “Invenzione” di
Giovanni Falcone, quando nessuno osava soltanto pensare alla eventualità
che uno strumento rivelatosi essenziale contro il terrorismo potesse risultare
praticabile nella lotta alla mafia. Falcone portò in Italia un Buscetta pentito
che doveva aprire la strada al ripensamento di tanti altri boss come Salvatore
Contorno, Nino Calderone e Francesco Marino Mannoia. Bastò questo per segnare tanti
punti, innanzitutto l'esito del primo maxiprocesso: una disfatta per Cosa
Nostra.
Già, il maxiprocesso.
Fu forse allora che Falcone e Borsellino firmarono la loro condanna a morte.
Cosa Nostra capì che non ci poteva essere convivenza tra i propri interessi e
quei due magistrati che parlavano in palermitano, capivano il linguaggio
cifrato del “baccaglio” mafioso, si muovevano perfettamente a loro agio tra
ammiccamenti, sguardi, segni apparentemente enigmatici, bugie e “tragedie”
inesistenti, ordite semmai dal nulla per giustificare reazioni cruente. I due
ex ragazzi della Kalsa, che in gioventù avevano giocato al calcio con coetanei
poi “arruolati” dai boss, si ritrovavano insieme a contrastare un mondo che
conoscevano e capivano perfettamente per averne trafugato, a suo tempo, la
chiave di lettura. Per questo poterono dialogare coi collaboratori, riuscirono
ad ottenerne la fiducia offrendo in cambio la semplice “parola d'onore” che
avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarli. Eppure Falcone e Borsellino non
dovevano vedersela solo coi “bravi ragazzi” che maneggiano pistole, eroina e
tritolo. La storia della vita e della morte di questi due eroi siciliani non
lascia spazio a dubbi e ambiguità: Giovanni e Paolo non erano molto amati
neppure nelle stanze che contano. Ovvio, si trattava di ostilità che si
manifestava in modo diverso. Eppure quella ostilità pesava esattamente quanto
le pallottole.
A Giovanni Falcone fu
riservata prima la tagliente ironia del Palazzo
di Giustizia di Palermo, poi la saccente campagna di stampa contro la presunta
smania di protagonismo, quindi un vero e proprio “sbarramento” che gli avrebbe
precluso il naturale ruolo di coordinatore delle inchieste sulla mafia.
Analoghe difficoltà avrebbe poi incontrato Borsellino durante la sua permanenza
a Palermo, dopo l'esperienza di Marsala, nella stanza di procuratore aggiunto.
Una
marcia lenta - quella di Falcone - verso la delegittimazione, fino al tritolo di Capaci, passando per l'inquietante avvertimento
dell'Addaura (attentato fallito del giugno 1989) che si saldava con le
“bordate” anonime degli scritti del “Corvo”. Quando Falcone salta in aria,
Paolo Borsellino capisce che non gli resterà troppo tempo. Lo dice chiaro:
“Devo fare in fretta, perché adesso tocca a me”. Nessuna fantasia di
tragediografo ha mai prodotto nulla di simile. A rileggere, oggi, gli ultimi
movimenti, le ultime parole di Paolo Borsellino, ci si imbatte in un uomo
cosciente della propria fine imminente, perfettamente consapevole persino del
possibile movente, eppure incapace di tirarsi indietro. Forse speranzoso di
potercela fare, forse rassegnato ad una morte che in cuor suo “doveva” al suo
amico Giovanni. (...)
Vent'anni dopo, non sappiamo ancora chi ha voluto
morti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sappiamo solo che erano due italiani
che facevano paura al potere.Onore a loro!
…i giudici
continueranno a lavorare e a sovraesporsi e in alcuni casi a fare la fine
di Rosario Livatino(assassinato dalla
Mafia, ), i politici appariranno ai funerali proclamando unità di intenti per
risolvere questo problema e dopo pochi mesi saremo sempre punto e accapo.(Paolo
Borsellino)
A tono i versi di De
Andre’ nella “Domenica delle salme”:
…La domenica delle salme
nessuno si fece male
tutti a seguire il feretro
del defunto ideale
la domenica delle salme
si sentiva cantare
quant’è bella giovinezza
non vogliamo più invecchi...
…La domenica delle salme
gli addetti alla nostalgia
accompagnarono tra i flauti
il cadavere di Utopia…
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