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martedì 21 giugno 2011

PIERFRANCO BRUNI: RITORNIAMO ALLA POLITICA SENZA “TECNICI” ED “ESTERNI”

Credo che discutere di cultura, in un tempo come il nostro, significa anche trascrivere le cifre della politica nella cultura stessa. Un territorio, la valorizzazione, la promozione, la capacità di lavorare su una strategia politico - culturale sugli assetti di una comunità costituiscono elementi di un progetto il cui senso non è soltanto la moralità, l'eticità, il valore (come principio kantiano), stadi già interni del progetto, ma la consapevolezza, la capacità, la professionalità e l'intelligenza di lettura nel vedere oltre la temperie attuale.
Bisognerebbe "profetizzare" il futuro: spesso diceva Aldo Moro. Ma il futuro si costruisce con la "penna" del presente che non può essere l'improvvisazione, il pressappochismo, l'illusione.
Quando si comincerà a comprendere che la politica ha bisogno delle culture (e quindi dei vari saperi in un portato politico alto: tra le idee, le condivisioni e una filosofia del pensare la quotidianità e la storia) è possibile riprendere quel discorso che si è interrotto alcuni anni fa.
Il ragionamento (non razionalità) intorno ai temi prospettici della politica deve basarsi su dei concetti chiave che non possono essere affidati alla non esperienza o alla sola introduzione della cosiddetta "vita sociale" nel fare della politica. La politica è pensiero che assume la sua valenza o ambivalenza nel corso di un tracciato indelebile che è quello di riuscire a trasformare l'attenzione del pensiero stesso nella attrazione delle azioni. Siamo ormai attraversati dall'indecifrabile. Ciò lo si avverte sia in un contesto nazionale sia nei micro contesti territoriali. La micro storia assorbe, forse necessariamente, le istanze di una storia più vasta e articolata.
Siamo perdenti in questo tempo di flussi irregolari della politica perchè sono venute meno le scuole di pensiero vere e proprie. Io vorrei ritornare a discutere di destra, di sinistra, di mondo moderato, di cattolicesimo all'interno delle politiche, di convergenze e divergenze. Invece siamo soltanto appesi alle dissolvenze. I processi storici si sono fermati nello scontro delle dialettiche proprio perchè è venuto meno una profonda dialettica (laica e cristiana) sui fenomeni della politica. Ecco perchè l'improvvisazione ha preso il sopravvento.
Purtroppo non ci sono sopravissuti nella politica in cui le idee fanno la strategia che nasce da un progetto. Non è questione di conflitti. Ragioniamo a voce bassa, come ci hanno insegnato Aldo Moro, Enrico Berlinguer, Nino Tripodi, Pietro Nenni, per poter ristabilire, non in termini nostalgici (non è questo il piano), una questione politica che dovrà essere messa al centro dei processi di convivenza. Non c'è una questione morale e tanto meno soltanto, duramente, economica. Quando la politica viene meno lo scontro tra morale ed economia si accentua, come è accaduto.
La debolezza del nostro tempo è nella fragilità del pensiero e nella accentuazione dell'estraneo alla politica dentro le strategie della politica. Non esistono governi tecnici, o ministri tecnici o addirittura assessori tecnici. Anche quando si ha una provata capacità e una spiccata professionalità manageriale le idee sono espressione e testimonianza. Proprio da questo punto di vista ritornare alla politica significa ritornare a pensare con armonia, con dignità, con pazienza, con fierezza.
Siamo orfani, tutti, perchè da figli di un processo politico non siamo riusciti a diventare padri. Eredi che devono incidere un solco. Chi sostiene che le ideologie sono state il marcio del Novecento non conosce bene la provocazione alla quale ci ha condotto la fine delle ideologie. C'è una generazione che ha rimpianti, forse un'altra che ha rimorsi, un'altra ancora che è diventata navigante nel vuoto.
C'è una generazione di non più giovani che deve confrontarsi con gli anni che abbiamo davanti riportando il dibattito sulle politiche delle divergenze e convergenze. Non può esistere nè una storia condivisa e tanto meno una politica condivisa. Dobbiamo essere onesti sino in fondo. Senza urlare ma con pacatezza dobbiamo renderci conto che ci sono ferite aperte alle quali dobbiamo dare una legatura. Ci vuole coraggio.
Se la politica, tanto tempo fa, era un pensiero elitario, filosofico, ontologico in cui l'impeto e l'azione avevano un senso io vorrei ritornare a quel tempo senza la malinconia degli intellettuali ma con la prassi della modernità. La modernità uccide e ci uccide se non la si governa con le culture di una politica mai improvvisata ma sempre vissuta come esistenza di una consapevolezza.
A volte mi chiedo: quale sarebbe stata la nostra storia se l’Italia non fosse entrata nella guerra del 1939 – 1940? Il “se” continua a mietere vittime nel pensiero. Cosa sarebbe stato del comunismo se Moro fosse sopravvissuto e cosa sarebbe diventato quel modello democristiano? La storia della politica moderna muore a Via Fani e a Via Castani. Craxi non è riuscito a reggere l’impatto violento della non politica nella politica.
Oggi siamo tutti dispersi. Ma un’idea di politica bisogna pur ricrearla senza però affidarci alla fragilità dell’improvvisazione e dei “mondi” esterni. Ritorniamo a fare politica con la consapevolezza che le ideologie non sono un fallimento ma una probabile ripresa di un confronto tra le appartenenze, i radicamenti, le eredità, la coerenza e la dignità delle diverse storie. Diceva Robert Brasillach in una sua lettera del 1940: la sola cosa alla quale dobbiamo affidarci, nei tempi bui in cui i crepuscoli sono precipizi, è la dignità accompagnata dalla speranza.

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