Ho studiato a Faenza negli anni Cinquanta, mentre nel decennio successivo ho poi svolto la mia attività prevalentemente a Milano. A Faenza c’era un clima culturale straordinario. Di Milano sottolineo la vivacità, in quel periodo, del dibattito su formale e informale. C’erano Manzoni, Fontana e Burri, e si capisce bene come si cercassero altre strade rispetto al formale. E’ stato un periodo breve, comunque. Tra il ’60 e il ’70 la mia ricerca era contraddistinta dalla geometria che caratterizzava i miei “Ferri grandi” (avevo già realizzato sculture che perdevano la loro staticità e il loro equilibrio). All’inizio degli anni ’70, tuttavia, la geometria è diventata solo un fatto formale, da cui gradualmente mi sono allontanato. Sono infatti arrivato alla distruzione della geometria stessa in favore di un disordine immaginativo di fondo. Compito dell’artista è “portar fuori” nella maniera più semplice possibile la geometria. Viaggiando ero venuto a contatto con colleghi tedeschi e americani ed avevo capito la contraddizione insita nello spazio e nella forma, contraddizione che intendevo risolvere. Sono giunto così a “portar fuori” la geometria del cerchio e del quadrato nel modo più semplice possibile, ossia tagliandoli. Con tale procedimento si sconvolge e si nega il segno geometrico. E’ anche questa una forma di creatività.
Come scegli i tuoi materiali?
Il mio materiale prediletto è sempre stata la terracotta. Mio padre - e mio primo maestro - era infatti un ceramista, un maestro del tornio ,lo strumento piu congeniale al vasaio. La terracotta risultava - diciamolo con franchezza - anche più comoda ed economica rispetto a materiali nobili come il marmo. Poi sono passato al ferro ed all’acciaio. Altri materiali non mi sono sembrati congeniali. Trovo una grande soddisfazione a lavorare sia con la terracotta che con l’acciaio, perché in entrambi i casi è il fuoco - sia pure in modo opposto, là indurendo, qua ammorbidendo - il vero anello di congiunzione della mia ricerca. E’ questo che mi interessa di più, poiché attribuisce all’intervento una dimensione quasi erotica.
Secondo te, il lavoro dell’artista presenta elementi di eccezionalità?
No, assolutamente. Noi pensiamo sempre che la normalità sia una condizione consueta. Secondo me, invece, si tratta di una condizione rarissima da ottenersi, poiché richiede un equilibrio perfetto tra sentimenti nobili e terribili. Soltanto il grande artista arriva alla normalità.
Palazzo Reale ha promosso una vasta antologica su Picasso. Che fu anche autore di ceramiche, come te.
Quando vivevo a Faenza, rimasi affascinato dalle bellissime ceramiche che Picasso donò al Museo della Ceramica, distrutto dagli eventi bellici. Il direttore aveva lanciato un appello alla generosità degli artisti per ricostruirlo, e le adesioni furono numerose: Picasso, appunto, Bracque, Leoncillo... A Faenza s’era creata una situazione particolarmente interessante, grazie alla presenza prestigiosa del caro amico Nanni Valentini e di altri artisti come Panos Tsolakos e Albert Diatò. In particolare, quest’ultimo portò una ventata nuova dall’Oriente, facendoci capire quanto fosse arduo arrivare alla semplicità. Sia Diatò che Valentini usavano materiali molto umili, anche per colorare in maniera naturale le loro ceramiche: la cenere, ad esempio. Ho vissuto il clima di quegli anni con grande fervore. Arrivato a Milano, abbandonai poi la ceramica, perché non avevo il forno e non si può preparare una scultura e poi andare a cuocerla altrove. Così mi sono indirizzato alle opere in ferro e acciaio.
Realizzi anche sculture bidimensionali, da appoggio?
Io non considero mai la scultura bidimensionale, neppure quando è eseguita su un piano. A me piace che alla scultura si giri attorno, come ad un grande albero. Che poi solo in un punto l’occhio - che spazia a 360 gradi - la possa vedere nella sua totalità è cosa ovvia.
Dimmi dell’importanza che assumono per te i tagli
. Il taglio per me è fondamentale. Fontana l’ha fatto sulla tela e sulla terracotta. Le mani diventano come un coltello che non scalfisce, ma recide di netto la materia. Così è per la scultura di due metri che sto predisponendo per il Teatro degli Arcimboldi a Milano. L’energia - purché contenuta - è l’aspetto principale delle mie opere, ne è l’essenza. Il lavoro secondo me è riuscito quando diventa leggero come una foglia, anche se in realtà è pesantissimo. E’ la contraddizione dell’occhio che - mentre guarda la scultura ben piantata sulla terra - vola.
Quali sono stati i processi ideativi che segnano creazioni importanti, come “Paesaggi” e “Archeologia”?
Io lavoro per temi che a volte durano a lungo. Con “Archeologia” ho voluto indagare la stratificazione dei comportamenti folli dell’uomo, che nelle sue contraddizioni è meraviglioso, ma anche tremendo. Con “Paesaggi” ho inteso “ricostruire” la terra, le foglie, il suolo su cui si passa. Adesso sto lavorando sull’idea del segreto del libro che, per capire, devi aprire e leggere. Il libro, in fondo, ha contraddistinto la storia dell’uomo, a partire dalla Bibbia.
Tu ti sei avvicinato al tema del mito, scegliendo un personaggio come quello di Achille.
Mi ha sempre affascinato il mito dell’eroe perdente: ecco perché ho scelto Achille che - benché sconfitto - decide di continuare la propria vita. Io credo che gli uomini siano tutti, in fondo, perdenti: pensiamo a quel che è successo recentemente a New York! Ho indagato il mito perché la civiltà mediterranea è marchiata da miti che non possiamo dimenticare. Insomma: uno nasce in un posto, lavora in un altro, vende altrove, e quando con nostalgia si volge indietro si ritrova quel passato. Quando mi si chiede che cosa mi distingue da uno scultore americano, rispondo: non l’uso dei materiali, non la forma od il concetto di modernità, ma il fatto che sono nato in Puglia. E’ questo il motivo per cui ho affrontato diversi viaggi nel Mediterraneo: per ricercare la mia origine. Anche se, poi, i miti culturali finiscono per diventare una sorta di “pretesto” per il mio lavoro: non mi piace farmi prendere troppo, e quindi me ne distanzio.
Oggi dividi il suo tempo tra l’Italia e la Germania...
Da vari anni insegno scultura all’Accademia di Stoccarda. L’Accademia in Germania è diversa da quella italiana: l’età degli studenti è più avanzata - attorno ai venticinque anni -, e quindi si crea un rapporto quasi alla pari per il buon livello di sintonia e di collaborazione. Ci sono giovani vivaci e attivi con i quali organizziamo mostre, sia all’interno dell’Accademia che fuori. Alcuni sono molto bravi, e di sicuro ne sentiremo parlare presto.
Faenza mi ha chiesto di effettuare nel Museo della ceramica una mostra delle mie sculture di terracotta che vanno dagli anni Sessanta ad oggi. A Brisighella, paese medievale bellissimo, sono esposte invece grandi opere nelle piazzette e nelle strade. Quanto al premio, ne sono stato molto soddisfatto, anche perché di Faenza io mi considero figlio.
Nessun commento:
Posta un commento
blog culturale fondato dalla giornalista Lilli D'Amicis